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Sulla responsabilità del datore per il fatto illecito commesso dal dipendente

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Sulla responsabilità del datore per il fatto illecito commesso dal dipendente

Con Sentenza n. 4099 del 18 febbraio 2020, la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ha affermato che il datore di lavoro, in quanto oggettivamente responsabile, deve risarcire anche il danno morale provocato dall’illecito commesso da un proprio dipendente durante lo svolgimento del rapporto di lavoro.

IL FATTO- Una lavoratrice ricorreva giudizialmente, innanzi al Tribunale competente, avverso la società datrice, per ottenere il risarcimento dei danni morali riportati per effetto delle molestie sessuali poste in essere nei propri confronti da parte dei suoi superiori gerarchici, seguite da uno stupro perpetratole da uno di essi. Il Tribunale accoglieva le doglianze della lavoratrice e in secondo grado la Corte d’appello aumentava del 50% la somma liquidata a titolo di danno non patrimoniale dalla sentenza di primo grado. Ricorreva il datore innanzi alla Corte di Cassazione.

LA DECISIONE DELLA CORTE- La Suprema Corte di Cassazione ha affermato preliminarmente, che:

  • la responsabilità indiretta del datore di lavoro per il fatto dannoso commesso dal dipendente non richiede che fra le mansioni affidate all’autore dell’illecito e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente un nesso di occasionalità necessaria;
  • trattandosi di una responsabilità oggettiva è assolutamente irrilevante la valutazione della componente soggettiva dell’autore rispetto all’illecito, poiché sussiste la responsabilità datoriale anche laddove il lavoratore abbia agito con dolo o per finalità strettamente personali.

Ad avviso del Collegio infatti, in caso di un illecito perpetrato da un dipendente, il datore deve liquidare alla vittima il risarcimento del danno biologico patito, aumentato secondo la “personalizzazione”, necessaria ad indennizzare le conseguenze che detto danno ha provocato nella relazione del soggetto con la realtà esterna. Inoltre, qualora il danno abbia provocato una sofferenza interiore collocabile nel rapporto del soggetto con sé stesso, la vittima avrà diritto a vedersi riconosciuta anche una autonoma voce risarcitoria da identificarsi nel danno morale.

Su tali presupposti, dunque, la Suprema Corte ha accolto il ricorso della lavoratrice.

Il testo completo della decisione: Cassazione civile, Sez. Lavoro, Sentenza n. 4099 del 2020

 

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