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Pubblico impiego, trasferimenti: l’anzianità di servizio pregressa non può comportare un miglioramento retributivo

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Pubblico impiego, trasferimenti: l’anzianità di servizio pregressa non può comportare un miglioramento retributivo

Con Ordinanza n. 31476 del 3 novembre 2021, la Corte di Cassazione ha ribadito che nel caso di trasferimento dei dipendenti pubblici, la anzianità di servizio pregressa deve essere riconosciuta dal nuovo datore di lavoro solo se serve per evitare un peggioramento del trattamento retributivo precedentemente goduto e non per ottenerne un miglioramento.

IL FATTO – La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato le domande di alcuni dipendenti pubblici che, a seguito del trasferimento da un ente locale alle dipendenze del Ministero, avevano invocato il riconoscimento della pregressa anzianità di servizio al fine di ottenere il riconoscimento di alcune indennità previste dal contratto collettivo nazionale applicabile in ragione del rapporto con il precedente datore di lavoro. In particolare, secondo la Corte d’Appello, dal confronto tra il trattamento economico anteriore al trasferimento e quello successivo allo stesso non era emerso alcun peggioramento retributivo requisito necessario per far valere la pregressa anzianità di servizio.

LA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE – La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e rigettato le domande delle ricorrenti in quanto «l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito». Viceversa, «L’anzianità pregressa, (…) non può essere fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario (…), né può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle mere aspettative (…)».

In conclusione «un peggioramento “sostanziale”, impedito dalla tutela che la direttiva eurounitaria riconosce ai lavoratori coinvolti nel trasferimento d’impresa, è ravvisabile solo qualora, all’esito della comparazione globale, emerga una diminuzione “certa” del compenso che sarebbe stato corrisposto qualora il rapporto fosse proseguito con il cedente nelle medesime condizioni lavorative, sicché non possono essere apprezzati gli importi, che se pure occasionalmente versati prima del passaggio, non costituivano il “normale” corrispettivo della prestazione, perché, in quanto legati a variabili inerenti alle modalità qualitative e quantitative di quest’ultima, non erano entrati nel patrimonio del lavoratore, che sugli stessi non avrebbe potuto fare sicuro affidamento neppure qualora la vicenda modificativa non fosse stata realizzata».

Il testo completo della decisione può essere estratto dal sito della Corte cliccando qui.

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