I lavoratori precari hanno diritto agli aumenti stipendiali
Con Ordinanza n. 19270 del 17 luglio 2019 la Suprema Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ha affermato che la progressione stipendiale derivante dal diritto alla anzianità di servizio prevista dalla contrattazione collettiva deve essere assicurata anche al lavoratore a tempo determinato.
IL FATTO – Una dipendente del Miur, appartenente al personale ATA della scuola assunta con ripetuti contratti a tempo determinato, ricorreva innanzi al Tribunale lavoro per ottenere le differenze retributive conseguenti alla maggiore anzianità derivante dai periodi prestati a tempo determinato. La sentenza di primo grado sfavorevole alla lavoratrice veniva riformata dalla Corte di appello, che affermava che il diritto all’anzianità prevista dalla contrattazione collettiva per i lavoratori a tempo indeterminato e alle conseguenti differenze retributive fosse fondato sul principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato sancito dalla normativa europea. Il Miur proponeva ricorso per Cassazione.
LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE CIVILE – La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Ministero dell’Istruzione in qualità di datore di lavoro. Dopo aver inquadrato l’oggetto della controversia nella progressione stipendiale (c.d. gradoni) per effetto del riconoscimento dell’anzianità di servizio ed essersi soffermata sull’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato ‘condizioni di impiego non meno favorevoli’ rispetto a quelle riservate al lavoratore a tempo indeterminato comparabile, la Corte ha concluso condannando il comportamento dell’Amministrazione scolastica. Sebbene quest’ultima avesse affermato l’esistenza di condizioni oggettive idonee a giustificare la diversità di trattamento della lavoratrice in questione, le motivazioni si fondavano su circostanze che prescindevano dalle mansioni e dalle funzioni esercitate dalla dipendente e che invece insistevano sulla natura ‘non di ruolo’ del rapporto di impiego e sulla ‘novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente’, con una palese violazione della normativa comunitaria in materia. Per tali ragioni, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro condannando quest’ultimo anche al pagamento delle spese di lite.
Testo completo della decisione:Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Ordinanza n. 19270 del 2019