Licenziamento per giusta causa e infrazioni precedenti non contestate (di F. Graziotto)
Con la sentenza n. 22322 del 2016 la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di provvedimento disciplinare sfociato in licenziamento per giusta causa, i fatti non contestati tempestivamente possono comunque essere considerati quali elementi rafforzativi in relazione ad altri addebiti tempestivamente contestati, e può tenersi conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento.
Il caso.
Una lavoratrice di un supermercato veniva licenziata per giusta causa a seguito di un episodio nel quale era risultato che non aveva pagato alcuni calzini, rimasti occultati sotto una confezione di acqua, ma non solo: un’addetta alle vendite aveva anche rconosciuto la lavoratrice per essersi appropriata di merce qualche giorno prima all’interno dello stesso punto vendita.
Il Tribunale accoglieva il ricorso della lavoratrice avverso il licenziamento comminatole, ma la Corte di Appello accoglieva il gravame del datore di lavoro, una società cooperativa, e riformava la sentenza di primo grado, confermando la legittimità del licenziamento.
La lavoratrice ricorre in cassazione con due motivi, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso.
La decisione.
Vista l’entità delle questioni connesse con il vizio dedotto dalla lavoratrice, la Suprema Corte affronta i due motivi di ricorso congiuntamente.
Dapprima il Collegio si richiama alle decisioni delle Sezioni Unite n. 8053 e 8054 del 2014, le quali hanno chiarito che «l’art. 360 n. 5, così come riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie».
Evidentemente il ricorso non risultava fondato sul punto.
E poi precisa che «Quanto, poi, al rilievo (presente nella sola esposizione del primo motivo), per il quale il ragionamento seguito dalla Corte di appello sarebbe errato anche sotto il profilo di cui al n. 3 dell’art. 360, in relazione agli artt. 7 e 18 I. n. 300/1970 (oltre che sotto il profilo formalmente denunciato di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.: cfr. ricorso, pag. 12), ove con esso la ricorrente abbia inteso dedurre il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di legge (contra peraltro lo stesso ricorso, pag. 13, penultimo capoverso, che sembra ricondurre l’avvenuto esame dell’episodio del 7/7/2008, non oggetto di contestazione disciplinare, ad una carenza di ordine logico del percorso motivazionale), è da osservare come la sentenza impugnata si sottragga a tale censura, avendo fatto applicazione del consolidato e risalente principio di diritto, secondo cui i fatti non tempestivamente contestati “possono esser considerati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti (tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore, secondo un giudizio che deve essere riferito al concreto rapporto di lavoro e al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni”; con la conseguenza che “sotto tale profilo può tenersi conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a tale valutazione il principio di cui all’art. 7 ultimo comma legge n. 300 del 1970” (Cass. n. 11410/1993; conformi: Cass. 6523/1996; n. 1894/1998; n. 1925/1998; n. 5044/1999; n. 7734/2003; n. 21795/2009; n. 1145/2011)».
Infine, nel rigettare il ricoso, il Collegio condanna la ricorrente al pagamento delle spese e al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Osservazioni.
In questa pronuncia la Cassazione, anziché ritenere sproporzionata la sanzione del licenziamento a fronte della tenuità del fatto come ha fatto in altre decisioni, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa comminato alla lavoratrice.
E lo ha potuto fare applicando il consolidato principio secondo cui i fatti non contestati tempestivamente possono comunque essere considerati quali elementi rafforzativi in relazione ad altri addebiti tempestivamente contestati.
La valutazione in concreto è rimessa al giudice del merito, ma la Suprema Corte ha chiarito che può tenersi conto anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento.