Cassazione: “taroccare” il certificato medico giustifica il licenziamento
Con la sentenza n. 14998 del 7 settembre 2012, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare intimato nei confronti del lavoratore che, al fine di prolungare il periodo di astensione dal lavoro, ha falsificato il certificato medico attestante il suo stato di malattia.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
(omissis)
Fatto
Con ricorso del 25-4-2004 M.A. dipendente della IVECO s.p.a. esponeva:
che si era assentato dal lavoro per malattia facendo pervenire al datore di lavoro copia dell’autorizzazione-impegnativa inviata all’INPS;
che in data 2-10-2003 l’azienda gli aveva contestato l’assenza ingiustificata dal 8-9-2003, prontamente impugnata con lettera del 9- 10-2003;
che, richiesta all’INPS copia del certificato di diagnosi, egli aveva accertato che i dati ivi riportati erano errati (la prognosi era fissata a tutto il 7-9-2003 mentre la data di rilascio era del 8-9- 2003 e quella apposta con timbro era del 9-9-2003), con la conseguenza che ciò aveva provocato il suo licenziamento in data 13- 10-2003 (per assenza ingiustificata oltre i quattro giorni ex art. 25 lett. A del c.c.n.l. di categoria);
che tale licenziamento era illegittimo perchè l’IVECO aveva ignorato la lettera esplicativa del 9-10-2003 e non aveva considerato l’errore di compilazione compiuto dalla AUSL dovendosi ritenere il reale periodo di malattia dall’8-9-2003 al 7-10-2003, mentre nessun addebito gli poteva essere mosso avendo egli adempiuto agli obblighi previsti dal c.c.n.l.;
che, invece, andava censurato il comportamento datoriale perchè la società non aveva avvisato il dipendente dell’errore di compilazione commesso dalla AUSL e quindi aveva inflitto un ingiusto licenziamento, peraltro emesso durante il periodo di malattia.
Il ricorrente chiedeva quindi la declaratoria di illegittimità del licenziamento con tutte le conseguenze sul piano reintegratorio e risarcitorio.
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Foggia, con sentenza resa in data 6-3-2006, rigettava la domanda.
Il M. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.
La IVECO s.p.a. si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata il 17-4-2010, rigettava l’appello e compensava le spese.
in sintesi la Corte territoriale rilevava l’incongruenza della tesi difensiva del M., contraddetta dalle risultanze documentali, in sostanza essendo stato il certificato datato 6/9/2003 (con diagnosi fino al 7-9-2003) consegnato in pari data dal fratello del lavoratore e non risultando nella copia prodotta dalla IVECO la abrasione contenuta nella copia prodotta dal M.. Inoltre il successivo certificato “rettificativo” invocato dall’appellante a presunta dimostrazione del prosieguo della malattia dopo la scadenza del 7-9-2003 risultava rilasciato da medico diverso ed era stato dichiarato apocrifo da quest’ultimo, il quale era stato poi assolto dal reato di cui all’art. 479 c.p., proprio per il disconoscimento in questione, a seguito di denuncia sporta dal M..
Per la cassazione di tale sentenza il M. ha proposto ricorso con quattro motivi.
La IVECO s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente vanno respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso, in quanto proposto oltre sei mesi dalla pubblicazione dell’impugnata sentenza ed altresì privo della formulazione dei quesiti, risultando entrambe infondate.
Sotto il primo profilo osserva il Collegio che, come affermato da questa Corte (v. Cass. 4-5-2012 n. 6784, v. anche Cass. 17-4-2012 n. 6007), “in tema di impugnazioni, la modifica dell’art. 327 c.p.c., introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha sostituito il termine di decadenza di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza all’originario termine annuale, è applicabile, ai sensi dell’art. 58, comma 1, della predetta legge, ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4 luglio 2009, restando irrilevante il momento dell’instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio”.
Sotto il secondo profilo, poi, va rilevato che “in tema di quesito di diritto la L. n. 69 del 2009, art. 47, con il quale è stato abrogato l’art. 366 bis c.p.c., si applica, per effetto della disposizione transitoria contenuta nell’art. 58, comma 5, della medesima legge, con riferimento alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione sia stato pubblicato successivamente alla data di entrata in vigore della legge” (4-7- 2009) (v. Cass. 16-12-2009 n. 26364, Cass. 18-7-2011 n. 15718).
Nella fattispecie, quindi, il ricorso avverso la sentenza depositata il 15-4-2010, notificato nel termine annuale, deve ritenersi ammissibile.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale si era lamentato che il primo giudice, violando il principio di immutabilità della contestazione, aveva allargato il thema decidendum alla circostanza del “presunto comportamento fraudolento del lavoratore che, secondo l’accusa della convenuta, aveva inviato alla datrice di lavoro, susseguentemente alla contestazione disciplinare del 2 ottobre 2003, un certificato falso per giustificare proprio i giorni di assenza” oggetto della contestazione.
Con il secondo motivo il ricorrente, ribadendo il carattere non fraudolento del proprio comportamento, lamenta vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione della prova testimoniale della infermiera dello studio medico che aveva rilasciato il detto certificato sulle circostanze del detto rilascio.
Con il terzo motivo il M., denunciando parimenti vizio di motivazione, deduce che la Corte di merito ha considerato solo una parte della documentazione relativa al giudizio penale conclusosi con l’assoluzione del medico che risultava aver rilasciato il detto certificato “rettificativo”, ribadendo la propria buona fede per aver egli semplicemente richiesto e ricevuto il detto certificato.
Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando ulteriore vizio di motivazione, in sostanza ribadisce la propria ricostruzione dei fatti sostenendo che l’unica negligenza a lui ascrivibile era quella di non aver verificato i dati riportati nel primo certificato e lamentando la omessa considerazione della lettera di giustificazioni inviata alla società.
I motivi, che in quanto connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte infondati e in parte inammissibili.
Sul certificato “rettificativo” va rilevato che la Corte di merito non è affatto incorsa nel vizio di omessa pronuncia in quanto ha chiaramente valutato lo stesso (e le risultanze del relativo procedimento penale) nell’ambito dell’esame della infondatezza della tesi difensiva del M., anch’essa ampiamente considerata, e non come elemento di fatto nuovo posto a sostegno del licenziamento, che è rimasto fondato soltanto sulla assenza ingiustificata contestata.
Per il resto le censure risultano inammissibili in quanto si concentrano nella esposizione di una diversa lettura delle risultanze processuali e della valutazione di fatto, che risulta congruamente motivata dalla Corte di merito.
Come è stato più volte affermato da questa Corte (v. fra le altre Cass. 20-4-2006 n. 9234) e va qui ribadito, “il disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e. in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al riguardo, salvo quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento, o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata”.
Del resto, come pure è stato precisato,”il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766).
Parimenti, con riferimento al primo certificato, la Corte di merito ha ampiamente considerato e valutato la infondatezza e contraddittorietà delle controdeduzioni del M., alla luce delle risultanze documentali, mentre il ricorrente in sostanza si limita a ribadire semplicemente la propria tesi difensiva.
Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese in favore della controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla controricorrente le spese, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 31 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2012