Cassazione: lo svolgimento di mansioni elementari e ripetitive presuppone la sussistenza della subordinazione
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente
Dott. PICONE Pasquale – Consigliere
Dott. STILE Paolo – Consigliere
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
ASSOCIAZIONE “GRUPPO CINOFILO ETNEO”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO 14/A, presso lo studio dell’avvocato XXXX, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXXX, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
G.A.;
– intimata –
e sul ricorso n. 172/2007 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAN GODENZO 59, presso lo studio dell’avvocato XXXXX, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXX, giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
ASSOCIAZIONE “GRUPPO CINOFILO ETNEO”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO MARIO 14/A, presso lo studio dell’avvocato XXXXX, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXX, giusta delega a margine del ricorso;
– controricorrente al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 23/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 25/07/2006 R.G.N. 385/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/06/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale, assorbimento o rigetto dell’incidentale.
Svolgimento del processo
La Corte territoriale di Catania, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva in parte la domanda proposta da G.A. nei confronti dell’Associazione Gruppo Cinofilo Etneo, avente ad oggetto il riconoscimento della intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato con la predetta Associazione dal gennaio 1992 al giugno 1999 con la conseguente condanna dell’Associazione al pagamento delle differenze retributive e del TFR. I giudici di appello ponevano a base della decisione il rilievo fondante che, alla stregua delle risultanze istruttorie e dei documenti agli atti, non risultava provata la eccepita gratuità della prestazione di lavoro resa dalla G.. Ritenevano altresì, avuto riguardo alla ripetitività dell’attività svolta dalla G., che non fosse necessaria, ai fini della sussistenza della subordinazione, la necessità da parte della lavoratrice di attendere, per lo svolgimento delle proprie mansioni di segretaria, a particolari direttive. Sulla base poi, della espletata CTU, della quale condividevano i conteggi svolti, detti giudici, condannavano la precitata Associazione al pagamento della somma di Euro 30.838,74 a titolo di differenze retributive.
Avverso tale sentenza l’Associazione Gruppo Cinofilo Etneo ricorre in cassazione articolando tre censure.
Resiste con controricorso la G. la quale propone impugnazione incidentale assistita da un unico motivo.
Motivi della decisione
I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando l’impugnazione della stessa sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale l’Associazione Gruppo Cinofilo Etneo deduce omessa motivazione e violazione degli artt. 1372 c.c., dell’art. 1325 c.c., n. 4, dell’art. 36 c.c., dell’art. 36 Cost., dell’art. 2967 c.c., dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2094 c.c..
Formula di conseguenza ex art. 366 bis c.p.c. il seguente quesito di diritto: “viola la regola che il contratto ha forza di legge fra le parti e che l’ordinamento interno delle associazioni è disciplinato dall’accordo fra gli associati il giudice di merito che non conferisca rilievo al fatto che uno statuto associativo non preveda un compenso per le prestazioni rese dai soci per il perseguimento delle finalità associative?; viola il regime di ripartizione dell’onere probatorio dettato dall’art. 2697 c.c., l’art. 115 c.p.c. ed opera una falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. nonchè dell’art. 36 Cost. il giudice di merito che espungendo dal processo elementi quali l’originaria volontà delle parti associate e le concrete modalità di svolgimento del rapporto associativo da cui emerge una presunzione di gratuità delle prestazioni associative esonera dall’onere probatorio circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato la parte processuale che lo deduce?; viola l’art. 2729 c.c. e l’art. 115 c.p.c. il giudice di merito che pretermette di una data fattispecie concreta elementi probatori che consentono di rinvenire una presunzione di gratuità di prestazioni rese da un’associata per il perseguimento delle finalità statutarie dell’associazione?”.
La censura è infondata.
Infatti, a parte ogni considerazione circa l’ammissibilità della contemporanea deduzione di violazione di legge e di vizio di motivazione – pur negata da alcune sentenze di questa Corte (Cass. 11 aprile 2008 n. 9470 e 23 luglio 2008 n. 20355 e ancora nello stesso senso 29 febbraio 2008 n. 5471, contra Cass. 31 marzo 2009 n. 7770), vi è da rilevare che la Corte del merito accerta che “l’attività della G. travalicava chiaramente da quella normalmente svolta dai soci”. Su tale specifico accertamento della Corte del merito non vi è alcuna censura che possa essere oggetto di esame in questa sede di legittimità, sicchè il relativo accertamento deve ritenersi intangibile con la conseguenza che risultano del tutto inconferenti i quesiti posti dalla Associazione atteso che quand’anche agli stessi si dovesse dare risposta affermativa non si potrebbe giammai pervenire ad un risultato utile alla tesi sostenuta dalla ricorrente principale.
Ed invero accertato che l’attività svolta dalla G. travalicava quella normalmente espletata dai soci è chiaro che rispetto a tale attività risulta irrilevante la norma statutaria che prevederebbe la gratuità della collaborazione prestata dai soci, in quanto quella svolta dalla G. si è posta oltre quella normalmente prestata dai soci.
Con la seconda censura del ricorso principale l’Associazione Gruppo Cinofilo Etneo denuncia omessa motivazione su punto decisivo e violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 1362 c.c..
Formula, quindi, l’Associazione predetta i seguenti quesiti di diritto: “viola l’art. 115 c.p.c. il giudice di merito che non tiene conto, nella valutazione globale della fondatezza o meno della domanda di tutto gli elementi di prova ritualmente acquisiti riguardo a concrete circostanze di fatto indipendentemente dalla parte che li abbia dedotti e dallo specifico interesse perseguito con la loro deduzione senza che risulti dalla motivazione che il convincimento dello stesso giudice di merito nell’accertamento dei fatti, si sia formato attraverso una valutazione complessiva delle risultanze probatorie?; viola il giudice del merito il canone interpretativo che impone di considerare nella interpretazione di un testo negoziale il senso letterale delle parole allorquando al chiaro significato letterale sovrappone presunzioni e valutazioni che non hanno alcun riscontro nel testo?.
La censura è infondata.
Invero è al giudice del merito che spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge), mentre al giudice di legittimità non è conferito il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e 27 luglio 2008 n. 20499).
In tale ottica si è ribadito da questa Corte che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 30 marzo 2007 n. 7972).
Nè, si è ulteriormente rimarcato, il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5),; in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 20 aprile 2006 n. 9233).
Sulla base di tali principi non possono trovare ingresso in questa sede le censure in esame che – a fronte di una valutazione delle risultanze istruttorie sorretta da congrua motivazione, la quale da conto del percorso logico seguito dai giudici di appello per addivenire alla conclusione che mai la G. ha inteso prestare la propria attività in favore dell’Associazione a titolo gratuito nè che la stessa Associazione ha mai considerato la prestazione effettivamente resa dalla G. come a titolo gratuito – mirano sostanzialmente a meramente contestare, e la scelta del giudice del merito, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, e la concludenza delle emergenze valutate. Le critiche, quindi, si risolvono, nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle prove che in quanto tali non sono ammissibili in sede di legittimità.
Quanto alla censura mossa all’interpretazione delle varie delibere – sulla base delle quali il giudice di appello ha trovato sostegno per escludere la natura gratuita del rapporto in esame – rileva il Collegio che la stessa per come articolata è generica in quanto difettando la allegazione, con riferimento alla violazione del canone interpretativo letterale denunciato, del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, si sostanzia nella mera prospettazione di una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante (Cfr. per tutte Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178).
Con il terzo motivo la ricorrente principale allega violazione dell’art. 2697 c.c. e falsa applicazione degli artt. 2089, 2094 c.c., dell’art. 2104 c.c., comma 2, degli artt. 2106 e 2555 c.c. con riguardo alla individuazione dei criteri generali e astratti che consentono di qualificare un dato rapporto come rapporto di lavoro subordinato nonchè vizio di motivazione.
Pone, poi, l’Associazione Gruppo Cinofilo Etneo il seguente quesito di diritto: “viola i criteri di ripartizione dell’onere probatorio fissati dall’art. 2697 c.c., nonchè i criteri di eterodeterminazione e di subordinazione gerarchica puntualizzati dagli artt. 2089, 2094 c.c., dell’art. 2104 c.c., comma 2, degli artt. 2106 e 2555 c.c. il giudice del merito che, esentando parte ricorrente che propone azione per la qualificazione di un dato rapporto come rapporto di lavoro subordinato ravvisa la sussistenza di un siffatto tipo di rapporto a prescindere dalla sottoposizione del lavoratore stesso al potere disciplinare del datore di lavoro?”.
Anche tale censura è priva di fondamento.
Questa Suprema Corte con sentenza n. 8569/04, pienamente condivisa dal Collegio, “premesso che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, ha, in effetti, ripetutamente affermato che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore di lavoro al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (ex multis Cass. 3 aprile 2000 n. 4036;
Cass. 9 gennaio 2001 n. 224; Cass. 29 novembre 2002 n. 16697; Cass. 1″ marzo 2001 n. 2970)”; ha rilevato che “In numerose altre pronunzie si è opportunamente sottolineato, peraltro, che l’esistenza del vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito. Proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è infine precisato che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito (v. per tutte, Cass . 27 marzo 2000 n. 3674; Cass. n. 4036/2000 cit.)”.
Orbene, ha sottolineato questa Corte “se l’attenuazione del potere direttivo e disciplinare – tale da non escludere pregiudizialmente la sussistenza della subordinazione e da consentire il ricorso ai menzionati criteri sussidiari – è stata di solito riscontrata nella giurisprudenza di legittimità in relazione a prestazioni lavorative dotate di maggiore elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo (quali, ad esempio, quelle del giornalista), tuttavia un analogo strumento discretivo può validamente adottarsi, all’opposto, con riferimento a mansioni estremamente elementari e ripetitive, le quali, proprio per la loro natura, non richiedono in linea di massima l’esercizio di quel potere gerarchico che si estrinseca – secondo quanto asserito in numerosissime pronunce di questa Corte – nelle direttive volta a volta preordinate ad adattare la prestazione alle mutevoli esigenze di tempo e di luogo dell’organizzazione imprenditoriale e nei controlli sulle modalità esecutive della prestazione lavorativa. Si è così inteso dire che ove la prestazione lavorativa sia assolutamente semplice e routinaria e con tali caratteristiche si protragga per tutta la durata del rapporto, l’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, nei termini testè precisati, potrebbe non avere occasione di manifestarsi (Cfr. al riguardo Cass. n. 3674 del 2000, cit., secondo cui l’esistenza del potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro è sicuro indice di subordinazione, mentre la relativa assenza non è sicuro indice di autonomia”).
Conclusione, questa, che tanto più appare valida laddove nel momento genetico del rapporto di lavoro siano state dalle parti puntualmente predeterminate le modalità di una prestazione destinata a ripetersi nel tempo, essendo evidente che in casi del genere – a fronte, cioè, dì mansioni elementari e, per così dire, rigide – il potere direttivo del datore di lavoro potrà anche non assumere una concreta rilevanza esterna (laddove il potere disciplinare in tanto potrà avere modo di estrinsecarsi in quanto il prestatore sia incorso in una inosservanza dei propri doveri, che non può essere astrattamente presupposta).
Del resto, che la subordinazione possa ritenersi sussistente anche in assenza del vincolo di soggezione al potere direttivo del datore di lavoro (inteso, ancora una volta, nei termini sopra indicati), ed in presenza, viceversa, dell’assunzione per contratto, da parte del prestatore, dell’obbligo di porre a disposizione del datore le proprie energie lavorative e di impiegarle con continuità secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro ed in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione per il perseguimento dei fini propri dell’impresa, è stato già affermato da questa Corte, sia pure con riferimento all’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro in direzione di una sempre più diffusa esteriorizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di professionalità specifiche (in particolare Cass. 6 luglio 2001 n. 9167 e 26 febbraio 2002 n. 2842): tanto a riprova della possibilità V ed anzi della necessità – con riferimento all’estrema variabilità che la subordinazione può assumere nei diversi contesti, di prescindere dal potere direttivo dell’imprenditore nei casi in cui esso non possa validamente assumere il ruolo discretivo che normalmente gli è proprio”.
Nella specie a siffatti principi la Corte di appello si è attenuta rilevando che proprio in considerazione della ripetitività dell’attività svolta, la G. era senz’altro in grado di svolgere le mansioni affidatele senza dovere attendere le istruzioni.
In conclusione il ricorso principale va respinto.
Con il ricorso incidentale la G. denuncia omessa motivazione in ordine alla decurtazione della retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva.
La censura è infondata.
Infatti oltre alla considerazione che agli effetti dell’art. 36 Cost. la retribuzione individuata dalla contrattazione collettiva è mero parametro di riferimento, la ricorrente incidentale omette del tutto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, di precisare rispetto a quale contrattazione collettiva e a quali voci retributive vi sarebbe stata la denunciata decurtazione impedendo in tal modo qualsiasi sindacato di legittimità al riguardo.
In definitiva entrambi i ricorsi vanno rigettati.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa le spese del giudizio di legittimità.