Cassazione: l’esposizione del lavoratore all’amianto può configurare l’omicidio colposo a carico del datore di lavoro
Il datore di lavoro risponde di omicidio colposo per la morte del lavoratore esposto all’amianto anche se il decesso avviene in tarda età. Lo ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 33311/2012, con la quale ha ritenuto “ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l’affermazione che taluna delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte infatti costituisce limite certo della vita e a venir punita è la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa che colposa”.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Presidente –
Dott. FOTI Giacomo – Consigliere –
Dott. D’ISA Claudio – Consigliere –
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
RITENUTO IN FATTO
1. Gli imputati di cui alla rubrica venivano tratti a giudizio innanzi al Tribunale di Venezia per rispondere, in ragione della posizione di garanzia da ognuno dei detti tenuta nel corso del tempo (analiticamente indicata nella rubrica) all’interno della Società Operativa Cantieri Navali Breda s.p.a., e, successivamente al giugno 1984, Società FINCANTIERI Cantieri Navali BREDA s.p.a., con stabilimento in (OMISSIS), per violazione dell’art. 437, cod. pen.;
nonchè per i delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. e art. 61 c.p., n. 3), e collegate plurime norme antinfortunistiche.
In particolare si contestava ai prevenuti, pur essendo noto almeno dagli anni sessanta la correlazione tra l’inalazione di polveri di amianto, mesotelioma e tumore polmonare, di avere, per colpa specifica e generica, omesso: d’informare i lavoratori dei rischi e delle misure protettive da adottare; di predisporre l’impiego d’idonei ed efficaci mezzi di protezione personale; di far sottoporre i dipendenti a precipuo controllo sanitario, volto a prevenire lo specifico rischio; di denunciare all’INAIL l’esistenza del detto rischio; di adottare ogni idonea misura, anche organizzativa, per impedire o ridurre al massimo la dispersione delle polveri d’amianto nell’ambiente di lavoro e in quelli adiacenti; di predisporre efficiente servizio igienico-sanitario di stabilimento.
Con la conseguente ulteriore contestazione che le dette condotte erano state causa dell’insorgenza di gravissimi infortuni-malattie professionali, che avevano condotto a morte, oltre ai lavoratori dipendenti Br.Ma., + ALTRI OMESSI anche D.P.C., Gi.Jo. e P.G. (rispettivamente mogli dei lavoratori Pa.Ro., S. P. e Be.Gi., le quali erano venute a contatto con le polveri tossiche lavando gli indumenti da lavoro dei coniugi).
All’epilogo della laboriosa istruttoria dibattimentale quel giudice di primo grado, con sentenza del 22/7/2008, “assorbita la condotta di cui all’art. 590 in quella di cui all’art. 589 cod. pen.”, assolti per non avere commesso il fatto G., R., O., B. e A. in ordine al decesso di D.P.D.;
C. in ordine al decesso di Ma.; O., R., G., C. e – limitatamente a determinati periodi analiticamente indicati – B., A. e Bi. dal delitto di cui all’art. 437 cod. pen., dichiarava la penale responsabilità di A. e Bi. per omicidio colposo ai danni di Br., ca., D.P.C., F., Sc., Se. e St.; di B., C. e O., per l’omicidio colposo, oltre che a danno dei detti, anche di V.; di G., oltre che per l’omicidio a danno di quest’ultimi, di Ch., Fa., Gi., Ma. e P.; R., per l’omicidio ai danni di Br., ca., D.P.C., F., Ma., Sc., Se., St. e V..
Concesse a tutti gli imputati le circostanze attenuanti generiche con criterio di equivalenza, condannava costoro alle pene reputate di giustizia. Infine, il tribunale, oltre a regolare le spese processuali, poneva a carico degli imputati e della responsabile civile (Fincantieri) provvisionali varie, giudicate di ragione, in favore delle parti civili.
2. La Corte d’appello di Venezia, investita dell’impugnazione, confermando nel resto la statuizione gravata, con sentenza del 13/1/2011 dichiarava non doversi procedere nei confronti del R., nelle more deceduto, revocando le statuizioni civili che erano state poste a carico del detto; dichiarava non doversi procedere nei confronti di A., B., C., G. e O. in ordine agli omicidi colposi di Br. e St., estinti per intervenuta prescrizione, confermando le pertinenti statuizioni civili; assolveva Bi. dai reati di omicidio colposo ascrittigli per non avere commesso il fatto, revocando le statuizioni civili; B. dall’omicidio colposo in danno di V. per non avere commesso il fatto; escludeva per tutti gli imputati la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 62 c.p., n. 3), fermo restando il giudizio di equivalenza; riduceva vanamente la pena a tutti gli imputati, siccome analiticamente in dispositivo, concedendo la sospensione condizionale in favore di O.; dichiarava condonata l’intera pena inflitta ad A., B. e C. nonchè anni tre di reclusione a G..
Per quel che rileva in questa sede deve rammentarsi, quanto alle disposizioni riguardanti talune delle parti civili, quanto appresso:
la provvisionale disposta in favore dell’INAIL veniva aumentata ad Euro 1.040.541,86; alla Regione Veneto, riconosciuta l’esistenza anche di danno ambientale e d’immagine, veniva liquidato risarcimento nella complessiva misura di Euro 335.000,00; restavano confermate le statuizioni civili riguardanti gli enti esponenziali d’interessi collettivi.
3. Appare opportuno, prima di passare all’esame dei due ricorsi con i quali è stata investita questa Corte, seppure in sintesi e avuto riguardo esclusivo alle questioni che conservano ancora rilievo in questa sede, passare in rassegna i punti salienti della vicenda.
3.1. Il giudice di merito, all’esito di approfondita istruttoria, dopo aver individuato la genesi della Società Operativa Cantieri Navali Breda s.p.a. (che dal 1947 si occupò del cantiere navale fondato nel 1923 da b.e.), e, successivamente al giugno 1984, Società FINCANTIERI Cantieri Navali BREDA s.p.a., con stabilimento in (OMISSIS); le attività delle quali la detta impresa si occupava (costruzione di navi passeggeri, merci e militari e grandi riparazioni delle stesse); le modalità lavorative (che vedevano interessato personale dalle più varie competenze ed anche dipendente da imprese satelliti), sia a bordo, che a terra; il largo uso di amianto (crisotilo, per l’intonaco ed i tessuti, amosite per i rivestimenti e, parrebbe, anche crocidolite) utilizzato per lo svolgimento della detta attività e per la protezione stessa degli operai dalle alte temperature causate dalle saldatrici, sicuramente a partire dal 1933 (data di assunzione di Be.Gi., coniuge di P.G.) e fino al 1992, allorquando l’utilizzo venne vietato per legge (seppure, nell’ultimo periodo, allo scopo di liquidare le scorte); l’assenza di protezioni individuali significative, i contesti di promiscuità e polverosità che caratterizzavano gli ambienti di lavoro, non purificati da adeguati sistemi di aspirazione, nonchè l’assenza di acconce misure igienico- preventive e sanitarie; ripresi gli studi più significativi (attraverso l’apporto degli specialisti della scienza di settore) dai quali emergeva l’estrema pericolosità per la salute dell’amianto, a dispetto della sua economicità e versatilità operativa, da svariati decenni riconosciuto causa certa, in presenza di elevata contaminazione, dell’asbestosi polmonare e, almeno dalla metà degli anni sessanta del secolo scorso, quale causa, praticamente esclusiva di mesotelioma ed anche di carcinoma polmonare, reputava sussistere il nesso causale e la colpevole condotta omissiva e commissiva degli imputati, la cui posizione di garanzia veniva analiticamente descritta.
In ordine al primo profilo, sulla base delle risultanze istruttorie il giudice di merito, sconfessata la plausibilità della teoria della c.d. “dose killer”, mutuata dalle conclusioni scientifiche raggiunte da Selikoff nel 1978; privilegiandosi i risultati della vasta ricerca operata con gli studi di Casale Monferrato, giungeva al convincimento che, pur potendo risultare decisiva sull’insorgenza della patologia anche solo la c.d. “dose iniziale”, v’era motivo di ritenere che le esposizioni successive dovevano considerarsi perlomeno determinanti della riduzione della latenza (in genere assai lunga) e, così, della vita.
In ordine al secondo profilo, il giudice giungeva a rimprovero colposo degli imputati per avere costoro omesso di assumere quelle iniziative, che erano in loro potere, che avrebbero inciso positivamente sull’evoluzione delle affezioni (c.d. giudizio controfattuale), violando plurime norme volte a prevenire malattie professionali e infortuni sul lavoro e, comunque, non assumendo quel diligente, prudente e perito atteggiamento che ognuno di loro avrebbe dovuto tenere, quale agente modello.
4. Le Difese proponevano ricorso per cassazione.
4.1. L’avv. Francesco Persiani, co-difensore di fiducia, in uno all’avv. Corrado Pagano, di G.R., con il primo motivo denunzia, invocando la previsione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza della corte territoriale. In sintesi, il ricorrente con il detto articolato motivo assume che la ricostruzione degli ambienti di lavoro, degli impianti, delle lavorazioni e dell’esposizione alle fibre d’amianto aerodisperse dei lavoratori e delle loro mogli, nonostante gli sforzi istruttori compiuti, non emergeva dagli atti ed era frutto di mera congettura del giudice.
Troppi anni erano trascorsi e troppi mutamenti intervenuti sui luoghi di lavoro, sulle modalità lavorative e sui materiali utilizzati. Sul punto incerte e spesso contraddittorie apparivano le deposizioni, distorte dai vari decenni trascorsi. In particolare doveva escludersi l’asserita promiscuità lavorativa, stante che la coibentazione (unica fase che prevedeva l’uso dell’amianto) veniva posta in essere allorquando l’efficienza del natante e la rispondenza alle norme degli impianti erano stati certificati; solo occasionalmente le malte contenenti amianto venivano preparate a bordo e, comunque, lontano dagli ambienti interni.
Illogicamente e con contraddittorietà la corte di merito, invece che valutare i dati istruttori raccolti, che non consentivano di determinare la quantità e qualità dell’esposizione dei lavoratori, aveva fatto ricorso alle massime d’esperienza e a un “non meglio precisato senso comune”.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 40 e 41 cod. pen.;
nonchè carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla causalità quanto ai casi di mesotelioma pleurico.
La corte territoriale, assume l’impugnante, aveva ricostruito la prova del nesso di causalità (sia inteso esso in senso commissivo:
uso di amianto e insorgenza della malattia; che omissivo: non aver tenuto la condotta doverosa che l’evento dannoso avrebbe impedito) affidandosi all’epidemiologia, cioè al metodo statistico. Sicchè, in violazione delle regole penalistiche in materia di reati d’evento, aveva ancorato la responsabilità individuale all’aumento del rischio.
Inoltre, ferma la pericolosità per la salute dei composti d’amianto, la misura d’essa dipendeva dal tipo di materiale utilizzato (dalla crocidolite, all’amosite, al crisotilo) e degli amalgami formati con altri componenti, che portano a dispersioni di fibre di diversa dimensione, dalle quali discende la lesività dell’accumulo polmonare.
Di poi, ignoto era rimasto il tempo d’induzione (cioè la durata della persistenza del contatto per ingenerare, magari a distanza di anni, la malattia), senza contare che non risultava essere stata adeguatamente chiarito se, avutosi il contatto, la malattia sia destinata a progredire inesorabilmente (dose-necessaria) o, seppure, essa avanzi in relazione anche all’entità delle successive esposizioni (dose-dipendenza).
Il giudice di merito, sposata la teoria dell’aumento del rischio, aveva ritenuto provato il nesso di causalità, reputando di aver soddisfacentemente verificato l’asserto attraverso il giudizio di controfattualità. Nel far ciò aveva aderito ai risultati dello studio epidemiologico svolto sui lavoratori della fabbrica Eternit di cemento e amianto di Casale Monferrato, senza considerare che si trattava di un contesto lavorativo del tutto diverso rispetto a quello degli operai di quell’industria cantieristica, meno esposti alla sostanza tossica per intensità e durata. Inoltre, era stata del tutto omessa l’indagine sulla storia individuale dello sviluppo della malattia in ognuno dei lavoratori venuti a morte. A tal ultimo riguardo la Difesa introduceva schema dal quale si ha modo di trarre i dati anagrafici, il tempo di esposizione durante il periodo di garanzia del G., quella totale, nonchè la latenza generale.
I dati in parola, sottoposti a vaglio critico, consentono alla Difesa di affermare che nella prevalenza dei casi la latenza complessiva era stata superiore della media statistica; che ciò aveva consentito a sei delle persone offese di raggiungere la soglia della vita media;
che, anche in considerazione dell’entità delle fibre disperse, non si erano registrati casi di asbestosi; che per i lavoratori raggiunti da morte prima della soglia di cui detto emergevano pregresse esperienze lavorative a contatto con l’amianto (anche il coniuge di P.G. era stato “dipendente” di G. solo per un anno). In definitiva, non solo l’imputato aveva fatto quanto in suo potere per ridurre il rischio, ma, qualunque fosse stata la sua condotta, l’evento si sarebbe verificato in ogni caso.
4.3. Con il terzo motivo il G. denunzia la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all’art. 43 c.p., comma 3 ed in riferimento alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, nonchè all’art. 2087 cod. civ., nonchè contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in ordine alla configurazione della colpa, stante l’imprevedibilità e l’inevitabilità dell’evento morte da mesotelioma e carcinoma polmonare. Nessun comportamento alternativo lecito avrebbe impedito l’evento, o, comunque, lo avrebbe scongiurato con significativa probabilità. Un tale comportamento alternativo avrebbe potuto prevenire l’asbestosi, la quale insorge proprio in presenza di rilevanti concentrazioni di fibre d’amianto nell’aria. Al contrario, il mesotelioma e il tumore polmonare, nonostante l’adozione di qualsivoglia cautela, non avrebbero potuto essere scongiurati. Solo nel corso degli anni successivi, acquisita consapevolezza, si erano prescritte protezioni e cautele, fermo restando che fino al 1992 l’amianto era un materiale legalmente in commercio.
Nè, peraltro, soggiunge il ricorrente, le prescrizioni di cui al D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21 si attagliavano al caso di specie.
Trattavasi, invero, dell’abbattimento di polveri moleste e non di certo della soppressione delle microfibre d’amianto, all’epoca comunque non consentita dalla tecnica.
Solo a partire dal 1980 si è avuta la piena consapevolezza della micidiale pericolosità dell’amianto anche ove respirato in quantitativi impercettibili; nel passato era nota solo l’insorgenza dell’asbestosi, direttamente collegata all’inalazione di cospicui quantitativi di fibre.
All’epoca nella quale l’imputato aveva rivestito la posizione di garanzia (1971-1980) non si era neppure in grado di rilevare la presenza nell’ambiente delle microfibre ultrafini foriere delle gravi malattie di cui si è detto.
In definitiva, nessun comportamento alternativo lecito poteva pretendersi dal G..
4.4. Con il quarto ed ultimo motivo l’imputato contesta inosservanza ed erronea applicazione di legge, nonchè carenza assoluta di motivazione, correlando all’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) gli art. 81 e 589 cod. pen., avendo il giudice di merito errato, “con riferimento all’applicazione della continuazione”, avendo aumentato la pena in proporzione agli anni in cui il G. aveva rivestito l’incarico di direttore generale (un mese per ogni anno) ed inoltre in rapporto al numero dei lavoratori deceduti (tre mesi per ciascuno).
Il primo aumento a parere del ricorrente appare ingiusto e ingiustificato, una sorta di “continuazione sulla continuazione”, che avrebbe potuto, semmai, trovare una qualche plausibilità nel caso fosse stata contestata la violazione del D.P.R. n. 303 del 1956 e non già l’ipotesi di cui all’art. 589 cod. pen..
4.5. Proponevano ricorso anche gli avv.ti Corrado Pagano e Ferdinando T. Trivellato, difensori degli imputati A.C., B. E., C.A., G.R., O.M. e R.C.M. (quest’ultimo, peraltro, come si è visto, deceduto il (OMISSIS)).
4.6. Il ricorso in parola consiste nella ritrascrizione, pressochè pedissequa dell’atto d’appello, salvo talune marginali integrazioni e modifiche che via via si evidenzieranno e l’enucleazione in titoli, caratterizzati dal neretto e dal maiuscolo, dei motivi di doglianza.
4.7. Fino a pag. 40 (prima parte), l’atto, riprendendo fedelmente quello d’appello, sviluppa un articolato ragionamento in ordine alla generale tematica connessa all’uso dell’amianto e, in particolare, nello stabilimento di Breda.
4.8. Da pag. 40 (seconda parte), dopo l’introduzione del seguente titolo: “mancata ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. nel senso di aver confuso la prova dell’aumento del rischio e quindi la causalità generale con la prova della causalità specifica di ciascun evento con le omissioni di ciascun imputato.
Mancata ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 nel senso di non aver distinto i diversi apporti causali di ciascun imputato che si è succeduto nel tempo nella posizione di garanzia considerando l’eventuale apporto causale di ciascuno come possibile causa esclusiva dell’evento.
Mancata ed erronea applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. per avere ritenuto assolutamente provata la teoria scientifica della rilevanza delle esposizioni successive all’instaurarsi della malattia sulle (rectius: sulla) quale gli stessi periti di ufficio avevano avanzato le loro cautele.
Erronea interpretazione della teoria esposta dal perito Dott. b. sulla ininfluenza delle esposizioni successive alla prima.”, il ricorso riproduce testualmente l’atto d’appello.
Questi, in sintesi, gli argomenti.
Partendo dalla premessa che l’accertamento della responsabilità penale erroneamente risultava fondato, invece che su un nesso causale dimostrato dalla medicina legale, sulle acquisizioni di analisi che prendevano in considerazione il rischio, l’aumento del detto e la probabilità, aver chiarito la natura dell’amianto, essersi soffermato sull’induzione della malattia (rimasto fenomeno sconosciuto), il ricorso in discorso escludeva che dal dibattito fra gli esperti sentiti nel corso dell’istruttoria fosse emersa la certezza che, dopo la prima fatale esposizione alla sostanza nociva o, comunque, dopo l’instaurarsi della patologia, le esposizioni successive possano avere influenza. Ciò ancor più sconoscendosi il quantitativo di fibre assorbito da ognuna delle persone offese.
Quanto al carcinoma polmonare nessuna certezza eziologica era dato trarre a riguardo del preteso effetto sinergico sui soggetti fumatori.
4.9. Da pag. 49, dopo l’introduzione del seguente titolo: “La colpa, Errata interpretazione e applicazione dell’art. 43 c.p. dove si ritiene che gli imputati dovevano conoscere la pericolosità dell’amianto nelle concentrazioni esistenti all’epoca nei luoghi di lavoro di loro pertinenza.
Errata interpretazione ed applicazione dell’art. 43 c.p. quando la corte ha ritenuto che l’inerzia della pubblica amministrazione e degli organi di controllo come INAIL e ASL non potessero essere interpretati come una scriminante ma non ne ha valutato le conseguenze in termini di colpa.
Errata interpretazione dell’art. 43 c.p. quando la corte non prende in considerazione la possibilità degli imputati di impedire l’evento applicando dispositivi e cautele disponibili al tempo in cui si sarebbero verificate le condotte omissive.
Errata interpretazione dell’art. 43 c.p. quando la corte omette qualunque valutazione in ordine alla efficacia causale di eventuali cautele adottate dagli imputati che si sono succeduti nella posizione di garanzia quando già le persone erano affette da malattia sia pure nella fase di latenza non manifesta.”, il ricorso riproduce testualmente l’atto d’appello. Questi, in sintesi; gli argomenti.
Solo ad una ristretta cerchia d’iniziati, alla metà degli anni sessanta del secolo scorso fu possibile avere una qualche consapevolezza in ordine al rischio oncologico derivante dall’uso dell’amianto e non solo quello conosciuto dell’asbestosi, quest’ultimo, tuttavia, dipendente da cospicue e persistenti inalazioni. Questa consapevolezza, del tutto estranea agli organi di controllo (INAIL e ASL), solo diversi decenni dopo divenne patrimonio comune. Pertanto, applicando i principi enunciati dalla Corte Costituzionale (sentenza 18/7/1996, n. 312), nessun rimprovero poteva muoversi ai soggetti tenuti alla garanzia, ai quali non potevano chiedersi conoscenze estranee “ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi altrettanto generalmente acquisiti”; soggetti, i quali, peraltro, adottando le opportune cautele, avevano scongiurato l’insorgere di casi di asbestosi.
Inoltre, come aveva chiarito il consulente di parte, all’epoca non esistevano sistemi di filtraggio tali da impedire la diffusione nell’aria delle fibre ultrafini e, pertanto, il rischio non era prevenibile.
4.10 Da pag. 53, dopo l’introduzione del seguente titolo: “Mancanza di motivazione in ordine alla responsabilità dei singoli imputati in relazione alla loro specifica posizione di garanzia”, il ricorso riproduce testualmente (salvo marginale variante a pag. 54, in fine) l’atto d’appello. Questi, in sintesi, gli argomenti.
La sentenza non aveva operato alcuna distinzione tra i vari titolari di posizione di garanzia, pur avendo costoro rivestito ruolo diversi (presidenti, direttori generali e direttori di stabilimento) e, soprattutto, aveva ignorato che lo stabilimento di (OMISSIS) era solo una unità produttiva facente capo ad una grande società, avente diverse sedi di “superdirezione”, con la conseguenza che ciascun direttore di stabilimento aveva ampi poteri d’intervento. Non era dato cogliere, di conseguenza, da dove poteva trarsi il convincimento che presidenti e direttori generali si fossero mai occupati o avrebbero dovuto occuparsi di misure che erano di spettanza dei direttori di stabilimento, i quali avevano tutti i poteri, incluso quello di spesa.
4.11 Il ricorso, poi, enuncia: “Errata interpretazione dell’art. 589 2 comma nella parte in cui la Corte di appello non ha esclusa l’aggravante della violazione delle norme che disciplinano la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, con la seguente motivazione:
“A questo proposito la lettera della norma è estremamente chiara ed inequivoca”.
4.12. Immediatamente dopo il ricorso censura l’entità della pena e la mancata applicazione con criterio di prevalenza delle attenuanti generiche: tenuto conto di quanto chiarito in ordine alla colpa e del minimo apporto causale di ciascuno degli imputati la pena avrebbe dovuto essere contenuta nel minimo edittale e ulteriormente ridotta per concessione delle attenuanti generiche da dichiararsi prevalenti.
4.13. Infine, dalla seconda parte di pag. 56, dopo l’introduzione del seguente titolo: “Erronea interpretazione ed applicazione delle norme in materia di risarcimento del danno in particolare per aver riconosciuto lo stesso danno per erogazioni sia alla Regione Veneto che le ha anticipate sia all’INAIL che le ha rimborsate.
Erronea interpretazione e applicazione delle norme in materia di assicurazione contro gli infortuni e le malattie gestita da INAIL per aver riconosciuto all’INAIL il danno da mancata percezione di premi assicurativi già prescritti”, il ricorso riproduce testualmente (salvo marginale variante solo formale a pag. 56, in fondo) l’atto d’appello.
Questi, in sintesi, gli argomenti.
Ingiusto il risarcimento disposto in favore della Regione, in quanto non si era tenuto conto che plurimi possono essere stati i fattori causa delle malattie che avevano portato al decesso, di natura ereditaria, socio-ambientale, ecc. Ingiusto il risarcimento disposto in favore dell’INAIL, in quanto non si era tenuto conto che il medesimo ente doveva considerarsi responsabile degli eventi letali, per non averli saputi prevenire.
Ingiusto il risarcimento disposto in favore delle organizzazioni portatrici d’interessi legittimi, in quanto non era rimasto provato il danno dai detti enti patito.
5. Depositavano memorie: l’INAIL; S.M.L., Ca.
I. e ca.ma.; Ro.Bi., Ma.Fa., Ma.Mo., Ma.Pa.; la soc. coop. Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute -.
Le parti civili costituite depositavano comparse conclusive.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. l’impugnazione proposta in favore di R.C.M., deceduto il (OMISSIS), deve essere dichiarata inammissibile.
Invero, estintosi il mandato per morte del mandante (art. 1722 c.c., n. 4), al cui schema deve farsi risalire il contratto d’opera professionale, il difensore, pur godendo di un autonomo potere d’impugnazione attribuitogli direttamente dalla legge processuale (art. 571 c.p.p., comma 3), non è, comunque, legittimato all’atto, essendo venuto meno il potere gestorio a suo tempo conferitogli dall’assistito (in senso conforme: Cass. 11/4/2007, n. 35217; n. 14248/2007; 49457/2003; 34400/2001).
2. Il decesso di O.M. in data (OMISSIS), sopravvenuto alla proposizione del ricorso per cassazione, impone, in parte qua, l’annullamento della sentenza d’appello e l’eliminazione delle statuizioni civili pronunciate nei confronti del predetto. Come noto, infatti, l’esercizio dell’azione civile nel processo penale non conosce l’istituto dell’interruzione di cui all’art. 299 c.p.c., di talchè la morte dell’imputato, prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile, oltre a comportare la cessazione del rapporto processuale penale, importa la cessazione di quello civile, con la conseguenza che le eventuali statuizioni civilistiche restano travolte. In ragione di ciò l’effetto caducante opera automaticamente, anche in assenza di espressa pronunzia sul punto del giudice (Cass. 2/11/2011, n. 5870; n. 11073/2009; 14/10/2005, n. 44663; 8/11/2000, n. 58).
3. Nel resto, l’insieme delle censure non merita di essere accolto.
Salvo marginali differenziazioni, che non si mancherà di evidenziare, il nucleo centrale dell’istanza censuratoria concerne la prova delle condizioni di lavoro in Fincantieri, quella del nesso di causalità e della colpa. Proprio a motivo dell’evidente necessità di far luogo ad un complessivo vaglio la Corte non ha inteso considerare attinto da inammissibilità il secondo ricorso, nonostante lo stesso, impropriamente si limiti per larga parte a riprendere testualmente i motivi d’appello, omettendo di esplicitare i punti che a parere della Difesa erano rimasti non sufficientemente chiariti dalla Corte territoriale.
4. La Corte territoriale ha illustrato, con motivazione ampia, analitica ed esente da cesure logiche, le condizioni nelle quali i dipendenti della Fincantieri e delle aziende satelliti erano stati costretti a svolgere le loro attività lavorative a contatto costante con le micidiali polveri d’amianto, condizioni che, al contrario di quel che viene assunto in via impugnatoria, risultano essere state accertate pienamente nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado e congruamente riepilogate, oltre che dal primo giudice, anche da quello d’appello, in particolare, quest’ultimo, occupandosi dettagliatamente delle condizioni lavorative predette da pag. 56 e ss.
Sulla base degli svolti accertamenti i lavoratori, almeno sino all’anno 1987, erano stati posti a contatto di concentrazioni di fibre d’amianto superiori al limite di 2 fibre per millilitro d’aria.
Anche ove la detta soglia non fosse stata raggiunta il titolare della posizione di garanzia non poteva dirsi esonerato da ogni possibile ulteriore attività di prevenzione, stante che il limite in parola costituiva solo una mera soglia d’allarme (Cass., 6, n. 38891/2010).
La detta stima quantitativa trova riscontro nella situazione lavorativa di fatto rimasta provata attraverso le assunzioni testimoniali: nessun contrasto significativo tra testimonianze si era registrato a riguardo della polverosità delle lavorazioni; la malta d’amianto, sia che fosse preparata a bordo, che a terra, importava rilevante diffusione di fibre nell’aria (spostamento, svuotamento dei sacchi, ecc); ampiamente dimostrata risulta la promiscuità lavorativa in locali angusti, specie quando i lavori si facevano frenetici per rispettare i tempi di consegna del natante, che mettevano a contatto con le microfibre tossiche tutti coloro che prendevano parte alle attività, pur se, in astratto, estranei alle operazioni più rischiose; ampiamente dimostrata l’assenza di qualsivoglia, pur rudimentale, protezione individuale (maschere, indumenti usa e getta, aspiratori, ecc.) o sistema di abbattimento delle polveri (macchine ispiratrici e idranti da utilizzare per bagnare i materiali); il diffuso uso dell’amianto financo a scopo protettivo (mantelle ignifughe e pannelli di protezione dal calore delle saldature); nè risulta sensata la pretesa di differenziare il rischio stante che tra amianto spruzzato, polveri sollevate dalle innumerevoli forature e da incauti sistemi di pulizia, rotture e rimarginature, operate al fine di consentire il complesso cablaggio dietro i pannelli di amianto, coibentature predisposte ad hoc su singole parti appositamente sagomate, la tossicità dell’ambiente non può essere negata. Ciò senz’altro fino alla metà degli anni ottanta del secolo scorso, siccome accertato dal giudice di merito, epoca durante la quale i materiali composti di fibra d’amianto venivano regolarmente segati, lacerati, forati e tagliati, senza l’approntamento di cautela di sorta. Senza contare, come consta dalla prima sentenza, che da i registri aziendali è emerso che anche negli anni novanta, a ridosso del divieto legale, si continuò ad utilizzare il detto materiale, non foss’altro per un rapido consumo dello stesso.
5. La sentenza gravata ha fornito appagante prova in ordine alla sussistenza del nesso di causalità.
Non è controverso che fino al 1987 tutte le vittime furono poste a contatto con le polveri di amianto. Nè l’eventuale rispetto delle previsioni antinfortunistiche (comunque non riscontrato, per quel che prima si è detto) avrebbe potuto esonerare gli imputati dal mettere in atto tutte le cautele del caso che la pericolosità del materiale trattato imponeva (sul punto può richiamarsi la sentenza n. 5117/2008 di questa Sezione).
Non assume pregnanza logica la critica secondo la quale l’affermazione di colpevolezza avrebbe dovuto tener conto della differenziazione del grado del rischio. La promiscuità lavorativa, sopra sunteggiata e approfonditamente illustrata dai giudice di primo e secondo grado, attraverso percorso motivazionale in questa sede incensurabile, e il processo patogenetico innestato dal contatto con le polveri d’amianto (sul punto ci si soffermerà più avanti) rendono irrilevante l’osservazione critica.
Allo stesso modo non ha concludenza la circostanza che tutti i lavoratori rimasti vittima della malattia oncologica polmonare avessero cominciato a lavorare a contatto con le polveri d’amianto ben prima del 1973. L’esposizione successiva, infatti, ebbe rilevanza, per lo meno concausale, tale da giustificare l’affermazione di colpevolezza degli imputati.
Si riduce, poi, a mera constatazione fattuale priva di adeguata forza avversativa la dedotta scarsa efficacia dei controlli del CONTARP (organo tecnico dell’INAIL), che, peraltro, si spiega (anche se non si giustifica) con l’acquisizione di notizie rassicuranti dalla stessa FINCANTIERI. Analogo discorso va fatto a riguardo della constatazione che alcuni operai in determinati periodi furono posti in CIG. Nel primo caso è illogico, come pare evidente, desumere, dalla scarsa penetranza dei controlli il convincimento che il rischio non sussistesse. Nel secondo caso, non è dubbio che l’interruzione d’inalazione di fibre d’amianto per un determinato periodo, perciò solo non fa venir meno l’effetto nefasto del pregresso e successivo accumulo.
I ricorrenti sembrano ignorare che la Corte territoriale, con motivazione approfondita, correlata analiticamente alle risultanze istruttorie ed esente da incongruenze logiche ha chiarito che, pur non essendo mai stato effettuato acconcio studio epidemiologico, si erano registrati in quell’azienda, nel passato, casi di asbestosi (implicanti, quindi, come noto, contatto continuativo con rilevanti quantitativi di polveri tossiche).
In ogni caso, l’insistere dei ricorrenti, anche in questa sede, sui profili quantitativi delle polveri disperse nell’aria deve ribadirsi come inconducente, oltre che inammissibile (avendo sul punto la Corte di merito efficacemente risposto), stante che le affezioni tumorali (mesotelioma e carcinoma del polmone) che portarono a morte le vittime debbono reputarsi dipendenti dall’inalazione di fibre d’amianto, non potendosi affermare l’esistenza di una soglia quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso.
Non merita, poi, censura il ragionamento della Corte territoriale attraverso il quale la predetta ha reputato provata la diagnosi di malattia concernente tutte le vittime: oltre i quatto casi nei quali la conferma è giunta dall’autopsia, per gli altri appaiono essere stati illustrati con esaustività gli accertamenti diagnostici che confermarono le patologie amianto-dipendenti.
Nel mentre non assume rilievo decisivo l’individuazione dell’esatto momento d’insorgenza della patologia (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165), dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza, ampiamente motivata appare la statuizione gravata nella parte in cui, giudicata inattendibile la teoria della c.d. “trigger dose”, assume che il mesotelioma è patologia dose-dipendente.
Correttamente la sentenza impugnata ha chiarito come da una conclusione scientificamente non contestabile dello studioso Irving Selikoff si era giunti ad elaborare l’inaccettabile tesi secondo la quale poichè l’insorgenza della patologia oncologica era causata anche dalla sola iniziale esposizione (c.d. “trigger dose” o “dose killer”), tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti.
Trattasi di una vera e propria distorsione dell’intuizione del Selikoff, il quale aveva voluto solo mettere in guardia sulla pericolosità del contatto con le fibre d’amianto, potendo l’alterazione patologica essere stimolata anche solo da brevi contatti e in presenza di percentuali di dispersione nell’aria modeste. Non già che si fosse in presenza, vera e propria anomalia mai registrata nello studio delle affezioni oncologiche, di un processo cancerogeno indipendente dalla durata e intensità dell’esposizione.
Ciò ha trovato puntuale conferma nelle risultanze peritali alle quali il giudice di merito ha ampiamente attinto. Infatti, la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l’affermazione che talune delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte, infatti, costituisce limite certo della vita e a venir punita e la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa, che colposa.
L’autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione cellulare, l’insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi, l’evasione dei processi di logoramento della crescita cellulare, l’acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l’arrivo di ossigeno e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari, necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti dalla quantità della dose.
Ciò ancor più a tener conto che l’accumulo delle fibre all’interno dei polmoni, continuando l’esposizione, non può che crescere, nel mentre solo col concorso, in assenza d’ulteriore esposizione, di molti anni, lentamente il detto organo tende a liberarsi delle sostanze tossiche, essendo stato accertato, dagli studi di Casale Monferrato, dei quali appresso si dirà, che l’accumulo tende a dimezzarsi solo dopo 10/12 anni dall’ultima esposizione.
Dallo studio in parola (i cui risultati sono stati riportati dalla sentenza di merito, la quale ha, a sua volta attinto agli apporti degli esperti di settore), il primo intervenuto in Italia, avendo operato su una vasta platea di persone, osservate per un lungo periodo (3434 lavoratori presi in considerazione per oltre cinquanta anni; seguiti dal 1950 al 1986 e poi fino al 2003), si è potuto ricavare che tutte le esposizioni alle quali il soggetto è stato sottoposto almeno negli ultimi dieci anni che precedono la diagnosi della malattia hanno avuto influenza, aumentando il rischio ed accelerando il processo maligno; che, allo stesso tempo, non è possibile determinare una soglia quantitativa e temporale di sicurezza, nè il tempo massimo d’induzione; che sul soggetto fumatore si verifica un effetto moltiplicativo esponenziale del rischio, ben maggiore della singola somma dei due rischi, quanto al carcinoma polmonare.
Al contrario, lo studio sul quale si fonda la tesi difensiva (quello dovuto al prof. p.), come è stato ampiamente chiarito in sede peritale, con argomenti pienamente convincenti, a causa dell’estrema esiguità del campione osservato non può essere di utilità statistica.
Sussiste, in definitiva, il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e il decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile determinare l’esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo di latenza (Sez. 4, 11/4/2008, n. 22165).
In altri termini, se il garante avesse tenuto la condotta lecita prevista dalla legge, operando secondo il noto principio di controfattualità, guidato sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica -universale o statistica (S.U., 10/7/2002, n. 30328), l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In questo senso l’evento doveva ritenersi evitabile.
Quanto alla c.d. legge statistica, come noto, la conferma dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale non può essere dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” (S.U. n.30328 cit.).
Secondo quel che è emerso dagli accertamenti ed indagini peritali, peraltro in conformità con le conclusioni unanimi della scienza di settore, il mesotelioma, che resta forma tumorale abbastanza rara, non poteva insorgere negli operai che ne sono rimasti vittima per cause diverse dalla esposizione ad amianto, la quale costituisce praticamente fonte esclusiva (salvo qualche rara eccezione che qui non ricorre la malattia dipende in via esclusiva dalla predetta esposizione).
Inoltre, come si è già rappresentato, nella comunità scientifica è ben radicato il convincimento che il processo carcinogenetico debba considerarsi dose-dipendente, secondo legge probabilistica di tipo statistico. Che ciò sia avvenuto in concreto può serenamente trarsi dalla vicenda clinica delle vittime, analiticamente illustrata nella sentenza di merito, emergendo che, in linea di massima (salvo, ovviamente le diversità derivanti dalla inevitabile diversità di risposta individuale), in sintonia con lo studio di Casale Monferrato, il rischio decresce (anche nel solo senso che l’insorgenza della malattia si allontana nel tempo) col trascorrere del tempo dall’ultima esposizione, di talchè è facile concludere che ogni assunzione successiva aumenta il rischio (in tal senso restano soddisfatte le indicazioni di cui alla sentenza 17/9/2010, n. 43786 della Sez. 4).
Assumere, come fanno i ricorrenti che le risultanze di Casale Monferrato non possono reputarsi calzanti alla vicenda qui all’esame, non appare persuasivo.
Pur vero che a Casale Monferrato si produceva il c.d. Eternit, lavorando l’amianto, mentre nella FINCANTIERI si utilizzavano materiali largamente composti d’amianto, tuttavia la diversità evidenziata non sposta in nulla la portata generale dei risultati scientifici acquisiti. In primo luogo, par ovvio reputare che le conclusioni raggiunte sono tanto più corrette e generalizzabili proprio perchè l’intenso contatto con la materia tossica fa escludere erronee interferenze. In secondo luogo, i lavori condotti in FINCANTIERI, come si è visto, per il largo uso d’amianto, per la totale indifferenza ad ogni cautela, anche la più semplice e rudimentale, per l’utilizzo di modalità d’impiego ad altissima dispersione di microfibre nell’aria, imponevano un’intensa esposizione non sensibilmente dissimile da quella di Casale Monferrato.
6. Non ha pregio l’asserto secondo il quale il giudice di merito non avrebbe considerato che nel corso del tempo si erano alternate le varie posizioni di garanzia. Trattasi, invero, di questione irrilevante, stante che le singole condotte degli imputati devono considerarsi concausa dell’evento morte e, pertanto, sul piano penalistico l’osservazione è ininfluente.
7. Non ha fondamento rilevare che la dimensione aziendale aveva imposto struttura di controllo centralizzata, qualificata quale una sorta di “superdirezione”.
L’uso dell’amianto era talmente diffuso in FINCANTIERI, costituendo, addirittura, significativa parte strutturale dei natanti, da non potersi considerare la sua pericolosità per la salute dei lavoratori questione alla quale taluno dei chiamati qui in responsabilità poteva dirsi estraneo, perchè investito di un livello di vigilanza di più generale profilo. Nè, per quel che si chiarirà meglio discorrendo immediatamente dopo della colpa, alcuno di loro può pretendere di andare esente da responsabilità assumendo di aver versato in stato d’ignoranza.
8. Correttamente è stata ritenuta la sussistenza dell’elemento psicologico della colpa.
8.1. Risponde a conoscenze comuni maturate in epoche anche assai lontane nel tempo che l’ingestione per via aerea di fibre, particelle e polveri costituisce pericolo per la salute.
Da oltre un secolo si ha la diffusa, piena consapevolezza della specifica pericolosità dell’assunzione attraverso le vie aeree delle microfibre di amianto (R.D. 14 giugno 1909, n. 442, nell’ambito di norme a tutela dei fanciulli; L. 12 aprile 1943, n. 455, la quale introdusse l’asbestosi fra le malattie professionali). Pur vero che ai quei tempi era nota solo l’insorgenza dell’asbestosi, ma, di sicuro, la pericolosità della lavorazione del materiale in parola era ben nota.
L’evidenziazione su basi divulgative affidabili della correlazione tra assunzione di polveri d’amianto e processi cancerogeni risale al 1964 (conferenza sugli “Effetti biologici dell’amianto” dell’Accademia delle Scienze, tenutasi a New York). Peraltro, nella detta occasione venne presentata da Vi.En. l’esperienza italiana. Lo stesso studioso nel 1966 e nel 1968, pubblicò in Italia su riviste scientifiche il proprio pensiero. La questione venne ripresa, con ampio approfondimento, in occasione del 34 congresso della Società Italiana di Medicina del Lavoro, tenutosi a Saint Vincent.
V’è, peraltro, da soggiungere che i primi studi dai quali emergeva la detta correlazione risalgono agli anni 30/40 e poi 50 del secolo scorso (in Germania). In Italia risalgono ai lontani anni 1955/1956 i primi approfondimenti resi pubblici da Ro., + ALTRI OMESSI .
Le conclusioni erano del tutto concordanti: la sopravvivenza dopo la diagnosi era solitamente assai breve; l’intervallo tra l’inizio dell’esposizione e la comparsa della malattia era assai lungo; anche basse dosi erano sufficienti ad innestare il processo patologico;
degli esposti solo taluni subivano la degenerazione cellulare; pur essendo vari i tipi di amianto, quasi sempre erano presenti fibre di anfibolo e crisotilo; non si riscontrava alcuna apprezzabile causa alternativa.
Ciò posto, non può assumersi che le conseguenze nefaste sulla salute derivanti dal contatto con le polveri d’amianto non fosse circostanza prevedibile.
L’esercizio di attività pericolosa avrebbe imposto all’imprenditore l’approntamento di ogni possibile cautela, dalla più semplice ed intuitiva (proteggere le vie respiratorie con maschere altamente filtranti; imporre accurati lavaggi alla cessazione dell’orario di lavoro con cambio degli Indumenti da lavoro da sottoporsi, anch’essi, a lavaggio; riduzione al minimo delle polveri; loro appesantimento mediante acqua; loro aspirazione, ecc), alle più complesse e sofisticate, secondo quel che la scienza e la tecnica consigliavano.
Non solo nulla di tutto questo venne fatto, ma, ai contrario, emerge dall’istruttoria una grossolana indifferenza di fronte all’inalazione delle polveri tossiche.
Reputa il Collegio che, anche a voler considerare che fosse nota solo la generica tossicità delle polveri d’amianto, causa di asbestosi, avrebbe risposto al principio di precauzione trattare con ogni cautela le polveri, che si sapevano assai sottili (e, quindi, di agevole infiltrazione e fissazione polmonare) di sostanza comunque tossica.
Questa Corte ha avuto modo di affermare che in tema di delitti colposi, nel giudizio di “prevedibilità”, richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la soia possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione “ex ante” dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravita ed estensione (Sez. 4, sentenza n. 4675 17/05/2006, massima).
Le norme antinfortunistiche che fanno obbligo al datore di lavoro d’approntare ogni misura utile ad impedire o ridurre al minimo l’inalazione di polveri non è diretta, come vorrebbero i ricorrenti, ad evitare che i lavoratori subiscano il fastidio d’un ambiente di lavoro polveroso, bensì, come appare evidente, che l’organismo dei predetti sia costretto ad inalare corpuscoli frammisti all’aria respirata del tutto estranei ad essa e certamente forieri di danno fisico.
In ogni caso, non par dubbio che la prevedibilità altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto “modello d’agente”, il modello dell'”homo eiusdem condicionis et professionis”, ossia il modello dell’uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l’assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l’operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta (Sez. 4, 1/71992, n. 1345, massima; più di recente e sullo specifico argomento qui in esame, sempre Sez. 4, 1/4/2010, n. 20047). Un tale modello impone, nel caso estremo in cui il garante si renda conto di non essere in grado d’incidere sul rischio, l’abbandono della funzione, previa adeguata segnalazione al datore di lavoro (sul punto, Sez. 4 n. 20047 cit).
Richiamando quanto poco sopra esplicitato, deve conclusivamente ribadirsi che ai fini del giudizio di prevedibilità deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, 31/10/1991, Rezza, massima).
Non ha fondamento, poi, l’opinione secondo la quale, comunque, gli eventi dannosi non sarebbero stati evitati.
Ove fossero state approntate tutte le cautele del caso, fino a giungere a rinunciare a certi tipi di lavorazione o d’impiego, preferendo altre modalità o altri materiali, anche se più costosi, gli eventi contestati (da intendersi nel senso di cui s’è detto) sarebbero stati scongiurati.
8.2. Come ampiamente chiarito da questa Corte (Sez. 4, n. 20047/2010) il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277 stabilì che, fermo restando il rispetto di tutte le forme di protezione individuale, fossero, comunque, vietate le lavorazioni, ove il livello di dispersione di microfibre di amianto fosse superiore a determinati parametri; ma ciò non significò affatto che al di sotto dei detti limiti fosse stata liberalizzata l’inalazione delle predette microfibre. Nè, peraltro, l’entrata in vigore della L. 27 marzo 1992, n. 257, con la quale si vietò definitivamente la lavorazione dell’amianto, segnò il momento iniziale nel quale si ebbe consapevolezza della pericolosità di tale lavorazione. Al contrario, rappresenta l’epilogo di un lungo percorso che, come si è visto, da tempo, aveva dimostrato la specifica elevata pericolosità dell’amianto.
8.3. Anche a volere reputare esistente l’inerzia mantenuta per molti anni dall’INAIL e dall’autorità sanitaria (evidenziata dai ricorrenti in sede d’appello per giustificare una sorta di legittimo affidamento) la Corte è dell’avviso che l’appartenenza ad un’impresa di cospicue dimensioni, quale la FINCANTIERI, la vasta esperienza, le competenze specifiche di settore (in difetto, l’assunzione di posizione di garanzia, a maggior ragione, dovrebbe ritenersi impingere in grave imprudenza), il possesso di congrui titoli di studio dei soggetti qui chiamati a rispondere in qualità di garanti, costituivano condizioni sufficienti per cogliere la specifica, elevata rischiosità delle lavorazioni svolte e, se del caso, la necessità ad attingere a competenze settoriali specialistiche, senza che il silenzio delle dette pubbliche agenzie potesse in alcun modo acquietarli.
9. Non ha fondamento la critica mossa al computo della pena in ordine alle plurime contestazioni di omicidio colposo.
Ovviamente non può trattarsi, stante la natura colposa, di unificazione sotto il vincolo della continuazione, come assume la Difesa, bensì dell’ipotesi del concorso formale.
Sul punto, è pertinente richiamare il principio di diritto derivante dalla sentenza emessa dalla Sez. 5 di questa Corte il 28/4/2011, n. 27382, secondo il quale non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena a titolo di continuazione, valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base.
Peraltro, il criterio adottato, il quale tiene conto sia del numero delle vittime, che della durata della posizione di garanzia, appare in questa sede incensurabile e niente affatto foriero di duplicazioni sanzionatorie.
10. Inammissibili risultano le censure con le quali è stata evidenziata errata interpretazione dell’art. 589 c.p., comma 2, ingiusta stima della pena e mancata applicazione con criterio di prevalenza delle attenuanti generiche.
Nel primo caso non è neppure dato cogliere in che consista la critica, essendosi i ricorrenti limitati ad asserire apoditticamente che “la norma è estremamente chiara ed inequivoca”.
Negli altri due casi, trattandosi di doglianze afferenti al merito della motivazione (e la Corte territoriale ha fornito soddisfacente motivazione del perchè la pena non poteva essere determinata nel minimo) non soggetto al vaglio di legittimità, non essendo, peraltro, stato prospettato apprezzabile motivo sulla base del quale possa considerarsi inadeguata la scelta dosimetrica del giudice di merito e quella di applicare le attenuanti generiche con criterio di equivalenza (le dette circostanze, infatti, al contrario di quel che affermano i ricorrenti erano già state concesse in primo grado).
In ogni caso, quanto a quest’ultime appare utile ricordare che questa Corte ha avuto modo di chiarire che ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche (e, quindi, a maggior ragione, per ponderarne l’effetto) il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, 18/1/2011, n. 3609, massima).
Inoltre, i ricorrenti avanzano la pretesa che avrebbe dovuto essere il giudice a spiegare in dettaglio tutte le ragioni che lo avevano portato a negare il beneficio (rectius: a considerarlo equivalente alla riconosciuta aggravante). Trattasi di opinione non condivisibile, come più volte ribadito in sede di legittimità. Sul punto, è bastevole richiamare il principio di diritto affermato di recente da questa Corte (Sez. 4, 28/10/2010, n. 41365): la concessione o no delle circostanze attenuanti generiche (e, quindi, ancora una volta, a maggior ragione, il criterio di bilanciamento prescelto) risponde a una facoltà discrezionale del giudice, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a fare emergere in misura sufficiente il pensiero del decidente circa l’adeguamento della pena in concreto inflitta alla gravita effettiva del reato e alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una “benevola concessione” da parte del giudice, nè l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento dell’esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (si vedano pure, Sez. 1, 15/4/2010, n. 32324; Sez. 3, 8/10/2009, n. 42314; Sez. 2, 17/2/2009, n. 11077).
11. Inammissibili devono qualificarsi i motivi di ricorso volti a contestare le statuizioni civili.
Manifestamente infondata appare la pretesa di escludere dall’area del danno la Regione Veneto assumendo che i fattori causativi delle patologie insorte dovevano considerarsi multipli, largamente ignoti e non ricollegabili in ogni caso all’amianto. Si è già chiarito, infatti, come, considerata la specificità, l’eziopatogenesi e la rarità delle dette patologie, non possa essere posta in dubbio la loro dipendenza dall’inalazione delle poveri d’amianto.
Del pari manifestamente infondata deve ritenersi la critica mossa al riconoscimento del diritto dell’INAIL a vedersi riconoscere il rimborso di quanto costretta a versare per legge a causa delle morti insorte per malattia professionale. Il detto ente, infatti, per legge (D.P.R. n. 1124 del 1965) ha l’obbligo di corrispondere le indennità previste ai lavoratori e loro congiunti in caso d’infortunio e malattia contratta sul o in occasione del lavoro, salvo il diritto ad agire in regresso, sempre nei casi normativamente previsti, nei confronti dei garanti. Non ha refluenza di sorta sul diritto in discorso, come par ovvio, la circostanza che il detto ente abbia più o meno bene esercitato le funzioni ispettive che la legge gli attribuisce.
Manifestamente generico, e, quindi, inammissibile, deve ritenersi il motivo con il quale i ricorrenti negano il diritto al risarcimento del danno in capo agli enti e associazioni esponenziali d’interessi collettivi: a fronte dell’apodittico asserto della non spettanza del diritto la Corte di merito, riprendendo il ragionamento del Tribunale, ha correttamente chiarito che la lesione del diritto soggettivo patito dalle predette organizzazioni andava individuata nella specifica lesione dello scopo perseguito, tutelato dall’ordinamento.
12. Al rigetto del ricorso consegue il pagamento delle spese processuali e il rimborso di quelle legali in favore delle parti civili, che, viste le notule, si liquidano nella misura giudicata di giustizia, di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso di R.C.M..
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di O. M. perchè i reati a lui ascritti sono estinti per morte dell’imputato ed elimina le statuizioni civili nei suoi confronti.
Rigetta i ricorsi degli altri imputati che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, gli imputati G.R., C. A., B.E., Bi.Ma. e A.C. nonchè il responsabile civile “FINCANTIERI – Cantieri Navali s.p.a.” in solido alla rifusione delle spese processuali in favore delle costituite parti civili che liquida in complessivi Euro:
1. 2.500,00 in favore di FIOM;
2. 3.000,00 in favore di Ca.Io. + 1;
3. 2.500,00 in favore di S.M.L.;
4. 2.500,00 in favore dell’INAIL;
5. 2.500,00 in favore della Provincia di Venezia;
6. 2.500,00 in favore del Comune di Venezia;
7. 2.500,00 in favore dell’Associazione Esposti Amianto di Venezia;
8. 3.500,00 in favore di c.a.t. + 2;
9. 2.500,00 in favore di UST-CISL di Venezia;
10. 2.500,00 in favore di FIM-CISL di Venezia;
11. 2.500,00 in favore della Regione Veneto; 12.2.500,00 in favore di Medicina Democratica; 13. 5.000,00 in favore di Sm.An. + 5; oltre accessori, come per legge, per tutti.
Così deciso in Roma, il 24 maggio 2010.
Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2012