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Giusta retribuzione, contrattazione collettiva e salario minimo legale

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La giusta retribuzione fra contrattazione collettiva e salario minimo legale

Giusta retribuzione, contrattazione collettiva e salario minimo legale

Il tema del cosiddetto salario minimo è entrato con prepotenza nell’attuale agenda politica italiana.

Merito – se così possiamo chiamarlo – della convergenza dei maggiori partiti di opposizione sull’urgenza di provare ad attenuare la questione salariale, in particolare con riferimento al lavoro remunerato con salari molto bassi. Talmente bassi da non consentire, nei casi più estremi, neppure una stentata sussistenza.

Ho volutamente utilizzato il verbo attenuare, anziché risolvere, perché ogni analisi sul tema non può prescindere dalla constatazione che la questione salariale è, in sé, irrisolvibile in quanto connaturata alla società capitalistica.

Pertanto, sotto questo profilo, non si può condividere quanto dichiarato dall’On. Schlein secondo cui una paga inferiore a nove euro lordi l’ora sostituirebbe al lavoro (giustamente retribuito, si sottintende) lo sfruttamento. Ed infatti, tale ingenua affermazione –  la cui declinazione dovrebbe condurre a sostenere che il lavoro remunerato con 8,99 euro l’ora sarebbe qualificabile come sfruttamento, mentre con una paga maggiorata di appena un centesimo tale “attributo” verrebbe miracolosamente meno – è frutto di un errore esiziale. Il capitalismo non può concettualmente esistere senza sfruttamento, perché è dal plusvalore del lavoro – cioè, quella parte di merce-lavoro di cui l’imprenditore si appropria senza pagarla – che viene generato il profitto ovverosia l’elemento essenziale ed imprescindibile di tale modello produttivo (chi volesse approfondire può iniziare l’indagine con: Marx, Lavoro salariato e capitale, 1847 consultabile qui). Forse l’errore è voluto per ragioni di comunicazione (l’affermazione può infatti suonare come uno slogan efficace) e, sotto questo profilo, potrebbe essere giustificato…a patto di non dimenticare mai la realtà: si può essere sfruttati – anzi, si è sfruttati – anche percependo retribuzioni di livello molto più alto della soglia minima indicata dalla Segretaria del Partito Democratico giacché, come detto, l’imprenditore si appropria comunque del plusvalore senza remuneralo.

Ciò posto, è chiaro ed evidente a chiunque che sul piano dell’azione politica la condizione (sociale, economica e giuridica) di chi svolge un lavoro caratterizzato da una bassa retribuzione non è assimilabile a quella di chi si attesta su di un livello retributivo medio-alto, e ciò sebbene il comun denominatore per entrambi sia pur sempre rappresentato dallo sfruttamento. Per dirla in parole povere c’è chi, pur sfruttato, riesce a condurre un’esistenza libera e dignitosa e chi, al contrario, non riesce neppure a sopravvivere e si trova persino a rischio di deperimento fisico (ah…le “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo!).

Ne deriva che è pienamente condivisibile l’urgenza di intervenire evidenziata da alcuni partiti di opposizione. Anzi, proprio l’inerzia da essi dimostrata in passato – e, fra questi, in particolare dal Partito Democratico – su svariati temi sociali incluso quello di cui si discute è certamente causa del loro “scollamento” dal corpo elettorale più numeroso costituito dalle fasce più povere che, in maggior parte, hanno scelto la destra. Ad ogni buon conto, meglio tardi che mai!


Prima di analizzare nel dettaglio le proposte delle opposizioni (e la posizione del Governo), occorre richiamare schematicamente il quadro delle regole che disciplinano, da noi in Italia, il quantum della retribuzione.

A mente dell’art. 36 della Costituzione, che ha valore precettivo e attribuisce al lavoratore il diritto soggettivo alla giusta retribuzione, quest’ultima deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato ed in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Risulta dunque chiara la duplice funzione della retribuzione: quella economica che la confina ad elemento del sinallagma contrattuale e quella sociale che la rende uno strumento di (parziale) emancipazione. Non si deve tuttavia commettere l’errore di mettere le due “facce della medaglia” sullo stesso piano; insomma, «la retribuzione, che deve essere proporzionata, non può non essere sempre sufficiente» (Pascucci).

Nel disegno costituzionale i principi di proporzionalità e sufficienza avrebbero dovuto essere concretamente declinati dalla contrattazione collettiva (quale autorità salariale) attraverso il contratto collettivo che avrebbe acquisito efficacia erga omnes in ragione di un complesso meccanismo descritto dall’art.39, seconda parte. Purtuttavia – è storia – la CISL e la Democrazia Cristiana si opposero all’attuazione di questa parte della Costituzione (per non favorire la CGIL ed il Partito Comunista), con la conseguenza che il regime d’efficacia dei contratti collettivi è oggi quello tipico di ogni contratto…e, cioè, vincola soltanto le parti che lo hanno sottoscritto. Ne deriva che molti rapporti di lavoro in ambito privato non vedono applicato alcun contratto collettivo.

[In ambito pubblico, invece, il sistema costituzionale è stato sostanzialmente attuato a partire dagli anni Novanta cosicché i contratti collettivi hanno efficacia erga omnes, ovverosia si applicano a tutti i rapporti di lavoro della categoria (comparto) di riferimento. Ritengo tuttavia che una “questione salariale” esista anche in tale ambito anche se, ovviamente, connotata da un’intensità diversa; per tale ragione la esaminerò con un separato scritto].

Pertanto, in ambito privato diviene decisivo individuare la “fonte” di determinazione della retribuzione che, su un piano generale ed astratto, può essere ricondotta alla giurisprudenza, alla contrattazione collettiva e alla legge.

Ed infatti, stante la mancata attuazione dell’art. 39, secondo parte, della Costituzione, la giurisprudenza si è di fatto sostituita alla contrattazione collettiva nella declinazione della giusta retribuzione e per far ciò ha preso a parametro i cosiddetti minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro privi di efficacia generalizzata. Tuttavia, a ben guardare, anche nella fase storica di maggiore “vicinanza” alle istanze dei lavoratori (e, cioè, fino alla fine degli anni Settanta), i giudici del lavoro si sono dimostrati comunque timidi accedendo ad una lettura meramente proporzionalistica e riduttiva della giusta retribuzione confinata al cosiddetto minimo costituzionale nel quale, in maniera inspiegabile, sono state fatte rientrare esclusivamente la paga base, l’indennità di contingenza e la tredicesima mensilità ma non altri istituti contrattuali.

Ad ogni modo, è comunque indubbio che, in tale fase storica, la giurisprudenza abbia svolto una importante funzione di sostegno del ruolo della contrattazione collettiva nell’individuazione della giusta retribuzione, così rinviando per un lungo periodo la necessità di un intervento sui minimi retributivi che pure di recente c’è stato, specie in settori poco sindacalizzati ovvero con un alto rischio di trattamenti al ribasso (v. DL n. 248/2007 sul lavoro del socio di cooperativa, DL n. 101/2019 sul lavoro dei cosiddetti riders, D.lgs n. 136/2016 sul lavoro dei cosiddetti distaccati, D.lgs n. 117/2017 sui lavoro nel cosiddetto Terzo settore, DL n. 117/2017 sul lavoro nel settore del trasporto aereo).

Per quali ragioni, dunque, in tali settori il Legislatore è dovuto intervenire fissando il salario minimo legale  ed identificandolo, in buona sostanza, nei «trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria»?

Per due ragioni.

La prima è rinvenibile nell’involuzione della giurisprudenza che, a partire dagli anni Ottanta, ha incominciato a discostarsi dal contratto collettivo preso a parametro, riducendo il quantum retributivo in ragione della dimensione e della ubicazione territoriale dell’impresa. Insomma, nel caso di imprese di piccole dimensioni e/o ubicate in zone economicamente depresse (in pratica, al Sud) si è incominciato ad applicare una sensibile decurtazione (fino al 30%) della tariffa collettivamente pattuita.

La seconda – forse effetto indiretto della prima – è rappresentata dalla scarsa “incisività” della contrattazione collettiva. Ed infatti, negli ultimi decenni si è assistito ad un indebolimento globale del sindacato (in via esemplificativa, si pensi agli effetti prodotti dalle politiche tatcheriane e reganiane e, qui da noi, da quelle berlusconiane e renziane), alla moltiplicazione dei contratti collettivi nazionali per ciascun settore, alla cosiddetta aziendalizzazione della contrattazione e, soprattutto, alla diffusione dei cosiddetti contratti pirata siglati da sindacati gialli ovverosia privi di effettiva rappresentatività.

Pertanto, oggi il parametro del contratto collettivo nazionale di lavoro non rappresenta più la garanzia di una retribuzione adeguata nel senso di quantomeno sufficiente. E ciò vale, purtroppo, anche per alcuni contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil.

A tal proposito si consideri che nelle cosiddette esternalizzazioni realizzate attraverso lo strumento giuridico dell’appalto spesso accade che il lavoratore, pur continuando a svolgere le medesime mansioni, si vede cambiare il contratto applicato a seconda della scelta operata dall’impresa appaltatrice. In un caso che ha fatto scuola, il Tribunale di Milano (Sentenza n. 1977/2016, successivamente confermata nel secondo e nel terzo grado di giudizio) – muovendosi in controtendenza rispetto alla riferita involuzione giurisprudenziale – ha evidenziato che, nell’ambito di un appalto per la gestione del servizio di reception e portineria, il lavoratore ricorrente si era visto applicare prima il ccnl “Servizi di pulizia industriale” (retribuzione lorda mensile di 1.243,23 euro), poi il ccnl “Multiservizi integrati” (retribuzione lorda mensile di 1.301,94 euro), poi il ccnl per i “dipendenti di proprietari di fabbricati” (retribuzione lorda mensile di 1.049,00 euro), ed infine il ccnl per i “dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari – Sezione servizi fiduciari” (retribuzione lorda mensile 715,17 euro). Insomma, nell’arco di pochi anni, vi era stato un decremento salariale di oltre il 30%, con l’ultima retribuzione oraria lorda attestata sul valore di 4,40 euro palesemente insufficiente a consentire al lavoratore di far fronte alle ordinarie necessità della vita. Pertanto, giacché il principio di sufficienza della retribuzione «impone che al lavoratore venga assicurato non solo un minimo vitale, ma anche il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato», il Tribunale milanese ha individuato la giusta retribuzione prendendo a parametro esterno le previsioni di uno dei contratti collettivi precedentemente applicati al rapporto di lavoro.

A conferma della crisi in cui versa (quantomeno parte del)la contrattazione collettiva, in maniera analoga anche il Tribunale di Torino, con la Sentenza n. 1128/2019, ha dovuto dichiarare l’inadeguatezza – sotto il profilo della sufficienza – della retribuzione corrisposta in base ad un ccnl (nella specie, quello Vigilanza) sottoscritto da «organizzazioni sindacali che possono certamente qualificarsi come maggiormente rappresentative» giacché «idonea a coprire appena il 70% dell’importo mensile necessario al medesimo per sostenere le spese di vita essenziali».

Insomma, questa giurisprudenza “di frontiera” (che rappresenta pur sempre, non dimentichiamolo, l’eccezione rispetto alla regola) certifica che taluni contratti sottoscritti da sindacati rappresentativi, in passato parametro della giusta retribuzione, oggi non sono più in grado di fissare un prezzo del lavoro rispettoso del principio della sufficienza e, men che meno, di quello della proporzionalità.

Ciò dimostra che i lavoratori hanno comunque sempre bisogno di un Sindacato forte che, seppur criticabile nelle sue eventuali “derive”, rappresenta un presidio necessario ed insostituibile in particolar modo per coloro che svolgono mansioni a cui viene associata una retribuzione di livello basso.

Dunque, per le ragioni sin qui spiegate, delle tre tipologie di fonti della retribuzione, due – ovverosia la giurisprudenza e la contrattazione collettiva – nel contesto attuale appaiono inidonee a fornire da sole adeguate risposte alla questione salariale, anche laddove questa venga limitata esclusivamente al lavoro con basse retribuzioni.

Rimane la terza fonte, la legge.

È venuto dunque il momento di esaminare le sei proposte attualmente pendenti in Parlamento a firma, rispettivamente, degli On.li Fratoianni, Serracchiani, Laus, Conte, Orlando e Richetti.

L’obiettivo dichiarato di tutte (eccezion fatta per quella avanzata dall’On.le Richetti) è quello di rendere cogente, e non più discrezionale, il trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi siglati da sindacati “comparativamente” più rappresentativi. In buona sostanza, per tale via, si vuole garantire a tutti i lavoratori l’applicazione della tariffa contrattata in sede collettiva (effetto, come abbiamo visto, ad oggi precluso dalla mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione). Ciò, nel solco tracciato dalla Sentenza della Corte costituzionale n. 517/2015 secondo cui la disposizione introdotta in ambito cooperativistico – che prevede che ai soci lavoratori vadano garantiti «trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» (art. 7, comma 4, DL n. 248/2007) – non viola l’art. 39, seconda parte, della Costituzione giacché i contratti collettivi non acquistano efficacia generale, ma è il precetto contenuto nell’art. 36 della Costituzione a garantire ai soci lavoratori trattamenti complessivi minimi indicando quei contratti collettivi come parametro esterno vincolante ai fini della quantificazione della retribuzione.

Ed allora a che serve fissare analiticamente il salario minimo legale ovverosia l’ammontare lordo minimo dovuto a titolo di retribuzione per un determinato lasso temporale (ad esempio, 9 euro l’ora oppure 1.500 euro al mese)?

Serve, per quanto si è detto sinora. Nel contesto attuale la contrattazione collettiva – anche quella genuina – specie in alcuni settori e per talune mansioni, è debole e, di conseguenza, va supportata prevedendo un minimo sotto cui la retribuzione non può in ogni caso scendere. Minimo che, per l’appunto, le citate proposte fissano in 9 euro l’ora.

A tal proposito è interessante notare che tutte le proposte (eccetto quella dell’On.le Laus) mirano a garantire a tutti i lavoratori un trattamento economico complessivo equivalente a quello previsto dai contratti collettivi e non soltanto la cosiddetta paga base che, come detto, ancora oggi, rappresenta il parametro utilizzato dalla giurisprudenza.

Un ulteriore spunto di riflessione interessante su cui sarebbe opportuno sviluppare un ragionamento politico è contenuto nel progetto dell’On.le Fratoianni che estende la tutela anche ai rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale ed alle collaborazioni coordinate e continuative non equiparate al lavoro subordinato prevedendo il diritto «a un compenso al risultato ottenuto, avuto riguardo al tempo normativamente necessario per conseguirlo».

A tali ragioni, la destra ed una parte del mondo sindacale (in particolare la CISL, sempre lei) oppongono due ordini di argomenti.

Primo. Il salario minimo legale (i 9 euro l’ora per intenderci) “spiazzerebbe” la contrattazione collettiva giacché il contratto collettivo, stante la non attuazione della Costituzione (art. 39, seconda parte), non è efficace erga omnes, ma solo per i dipendenti di imprese aderenti ad Organizzazioni datoriali firmatarie (Confindustria, Confcommercio ecc.). Di conseguenza si rischierebbe la “fuga” dei datori di lavoro dalla contrattazione collettiva, ossia la loro fuoriuscita dalle organizzazioni firmatarie, a ciò indotti dalla facoltà di erogare esclusivamente il salario minimo legale e non l’intero trattamento economico-normativo previsto dai contratti collettivi.

La tesi è però priva di pregio. In disparte il fatto che a tale “fuga” abbiamo già assistito (a titolo esemplificativo viene subito alla mente la FIAT di Marchionne con Federmeccanica), è evidente che, nelle proposte esaminate, il salario minimo legale opera come una sorta di ruota di scorta laddove il trattamento contrattuale complessivo si attesti a livelli “da fame” e, cioè, inferiori alla soglia dei 9 euro lordi l’ora. Come già spiegato, (quasi) tutte le proposte hanno l’esplicito obiettivo di garantire a tutti i lavoratori un trattamento economico complessivo equivalente a quello previsto dai contratti collettivi proprio per evitare che i datori di lavoro abbiano interesse a fuoriuscire dalle organizzazioni di riferimento.

Con una seconda obiezione la destra prefigura un effetto di “appiattimento” che sarebbe indotto dall’introduzione di un salario minimo legale unico per tutti i lavoratori di ogni settore diversamente da quanto prevede il sistema di contrattazione collettiva che differenzia i livelli retributivi a seconda dei settori, delle qualifiche e delle mansioni. In quest’ottica, l’unica vera “soluzione” del problema sarebbe rappresentata dall’attuazione dell’art. 39, seconda parte, della Costituzione e dalla conseguente stipulazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes, ossia cogenti per tutti i datori di lavoro indipendentemente dalla loro adesione ad un’organizzazione firmataria.

Su un piano generale ed astratto, non si può che convenire sul fatto che l’efficacia erga omnes sarebbe risolutiva (quantomeno in parte, giacché non si può escludere che vengano firmati contratti particolarmente “avari” come d’altronde tuttora spesso accade). Ma appare francamente assai improbabile che disposizioni rimaste inattuate (in ambito privato) per circa 80 anni divengano effettive proprio adesso. A ben guardare, l’argomento si rivela quindi una furbata per evitare di farsi carico del problema in ragione della (legittima, ma non condivisibile) volontà politica di perorare gli interessi dell’impresa a discapito di quelli dei lavoratori.

D’altronde, alla categoria “furbata” va ascritta anche l’ultima mossa della Presidentessa del Consiglio, On.le Meloni, consistente nell’investire il CNEL dell’onere di formulare una proposta alternativa a quella avanzata dall’opposizione che – è già chiaro – affronterà il problema dei bassi salari proponendo soluzioni che agiscano sulla leva fiscale e contributiva. In parole povere, l’innalzamento a livelli di sussistenza sarebbe determinato in via indiretta attraverso la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale. Insomma, un “nuovo” modo di addossare ogni onere sui contribuenti (in massima parte lavoratori dipendenti) che, con i tributi e le tasse che pagheranno, solleveranno le imprese da un costo che queste dovrebbero sostenere in quanto beneficiarie del lavoro da cui genera il profitto.

Vedremo come si svilupperà il dibattito, se il Parlamento deciderà di intervenire ed in che termini.

A parere di chi scrive, tuttavia, un intervento appare ineludibile a patto che non venga finanziato dalla fiscalità generale ed il relativo costo venga interamente addossato sui datori di lavoro, eventualmente ragionando su un brevissimo periodo transitorio in cui possono essere previsti provvedimenti di “supporto” alle imprese più piccole; e che vengano previsti strumenti idonei a rendere effettiva la tutela per il lavoratore destinatario di una bassa retribuzione.

Ed infatti, difficilmente chi non riesce neppure a sostentarsi avrà la forza di agire in giudizio per rivendicare il salario minimo legale. Sarebbe quindi opportuno, per un verso, garantire al lavoratore in tali condizioni di poter sempre accedere al cosiddetto gratuito patrocinio (con conseguente esenzione dal versamento del contributo unificato) e, per altro verso, strutturare un rito ad hoc caratterizzato dalla speditezza (e, in tal senso, un modello di partenza potrebbe essere rappresentato da quello previsto dall’art. 28 della Legge n. 300/1970 in materia di repressione della condotta antisindacale) rendendo altresì applicabile, in sede amministrativa, l’istituto della diffida accertativa (art. 12, D.lgs n. 124/2004)  in modo da non rendere più necessaria l’introduzione di un giudizio potendo a tal fine risultare bastevole anche l’azione dell’Ispettorato del lavoro competente per territorio.

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