Cassazione: il dipendente non diligente deve risarcire il danno arrecato al datore di lavoro
La violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza da parte di un dipendente comporta, oltre all’applicabilità di sanzioni disciplinari, anche l’insorgere del diritto al risarcimento dei danni e ciò tanto più nel caso in cui il medesimo, quale dirigente di un istituto di credito in rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro, del quale è un “alter ego”, occupi una posizione di particolare responsabilità, collocandosi al vertice dell’organizzazione aziendale e svolgendo mansioni tali da improntare la vita dell’azienda; ne consegue che, ove il dirigente consenta alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l’ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo, si realizza una violazione dell’obbligo di diligenza, con la produzione di un danno risarcibile pari alla perdita subita dall’istituto di credito a causa della situazione di insolvenza dei beneficiari del credito. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato che, con motivazione adeguata, il giudice di merito aveva ritenuto la diretta responsabilità del direttore della filiale di una banca che aveva mantenuto ed ampliato, anche in violazione delle regole tecniche relative al tipo di operazioni, l’esposizione debitoria di un gruppo d’imprese nei confronti dell’istituto di credito nonostante i numerosi inviti della direzione centrale a ricondurre le posizioni nell’ambito della regolarità formale e sostanziale, finendo con generare una perdita di oltre 43 miliardi di lire). (Cassa con rinvio, Trib. Roma, 16 luglio 2004)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE LUCA Michele – Presidente
Dott. ROSELLI Federico – Consigliere
Dott. PICONE Pasquale – Consigliere
Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere
Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 19845/2005 proposto da:
A.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 28, presso lo studio dell’avvocato CANNATA MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ACONE MODESTINO, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
B.N.L. – BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato xxxxxxxxxx, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati xxxxxxxxxxxgiusta procura speciale atto Notar MARIO LIGUORI di ROMA del 28/07/05 rep. n. 142240;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 22127/2004 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 16/07/2004 R.G.N. 23445/97 + 1;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/10/2008 dal Consigliere Dott. AMOROSO GIOVANNI;
udito l’Avvocato xxxxxxxxxx;
udito l’Avvocato xxxxxxxx per delega xxxxxx;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 15 dicembre 1994 la Banca Nazionale del Lavoro, premesso di avere ottenuto, con provvedimento in data 14 ottobre 1994 dal pretore del lavoro di Roma sequestro conservativo ante causam in danno del suo ex dipendente A.F., già direttore della filiale di (OMISSIS), sui beni del medesimo sino alla concorrenza di 30 mld (importo poi ridotto a 15 mld con ordinanza del 23 dicembre 1994), conveniva quest’ultimo in giudizio per sentirne dichiarare la responsabilità per colpevole inadempimento all’obbligo di diligenza ex art. 2104 c.c., oltre che per illecito sanzionabile ex art. 2043 c.c. Deduceva che l’ A., in qualità di direttore della filiale di (OMISSIS), aveva consentito che al “Gruppo Marano”, in virtù di rapporti intrattenuti con la filiale di (OMISSIS), fossero concessi esuberi di fido non autorizzati e fossero assunti c.d. rischi di corriere in violazione non solo del generale dovere di diligenza, ma anche di specifiche istruzioni impartite sulla vicenda dalla direzione centrale, così permettendo la formazione di una rilevantissima esposizione con il prevedibile danno per non essere il “Gruppo Marano” in grado di fare fronte con il patrimonio delle società e dei soci al pagamento del debito accumulato. Chiedeva quindi che, accertata la responsabilità dell’ex direttore di filiale per i fatti esposti, il medesimo fosse condannato al risarcimento dei danni in misura non inferiore a 31,9 mld, relativamente alla esposizione nei confronti del “Gruppo Marano”, ed a 10 mld quale danno all’immagine.
Costituitosi in giudizio, A.F. chiedeva il rigetto delle domande, contestando qualsiasi responsabilità per i fatti dedotti dalla banca ricorrente ed escludendo, in particolare, di avere tenuto i rapporti con il “Gruppo Marano”, che erano stati invece gestiti dal capo raggruppamento MA., al quale era stata conferita delega piena. Solo nel (OMISSIS) era venuto a conoscenza degli sconfinamenti accordati e del giro di assegni, che peraltro la direzione centrale aveva conosciuto ed approvato.
Contestava l’ammontare della esposizione debitoria del “Gruppo Marano” indicata dalla banca e l’esistenza di un danno, dato che il patrimonio del gruppo era di gran lunga superiore al credito vantato.
Chiedeva la revoca del sequestro ed il rigetto della domanda.
Proponeva, a sua volta, domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni che indicava ed elencava per avere agito la banca con dolo nei suoi confronti e per avere eseguito la misura cautelare nel modo più pregiudizievole pur sapendo di non averne diritto.
2. Sentite le parti, il pretore adito, con sentenza del 10 giugno 1996 n. 9604, dichiarava la nullità sia del ricorso sia della memoria contenente la domanda riconvenzionale per la violazione dell’art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4.
Sulla base di detta pronunzia, A.F. domandava al pretore del lavoro di Roma, ai sensi dell’art. 669 novies c.p.c., l’accertamento dell’intervenuta inefficacia del sequestro conservativo.
Il pretore adito, dopo una duplice pronunzia di incompetenza sua e del tribunale di Roma, con sentenza del 27 febbraio 1997 accoglieva il ricorso e dichiarava inefficace il sequestro conservativo ante causarti.
3. Avverso le due sentenze la B.N.L. con atti del 7 giugno e del 19 novembre 1997 proponeva appello per contestare la dichiarata nullità del ricorso introduttivo e l’inefficacia del sequestro, riproponendo la domanda di risarcimento dei danni.
Si costituiva in giudizio A.F. il quale, nell’impugnare i gravami, proponeva appello incidentale.
Con sentenza non definitiva n. 10374/03 in data 25 marzo – 17 luglio 2003, il Tribunale di Roma, sez. Lav., decidendo quale giudice d’appello sui giudizi riuniti, accoglieva l’appello proposto da B.N.L. avverso la sentenza n. 98224/97 e, per l’effetto, rigettava l’originaria domanda, proposta dall’ A., di inefficacia del sequestro, di cui all’ordinanza del Tribunale di Roma del 21 dicembre 1994; e, non definitivamente pronunciando, accoglieva la domanda proposta da B.N.L., relativamente alla nullità del ricorso, così riformando la sentenza impugnata e, per l’effetto, disponeva con separata ordinanza, la prosecuzione del processo, relativamente agli altri capi dell’appello proposto da B.N.L., sul danno lamentato, nonchè sull’appello incidentale proposto dall’ A..
4. Avverso detta pronunzia A.F. ha proposto, con atto del 15 aprile 2004, ricorso per cassazione, rigettato da questa Corte con sentenza n. 17778 del 2007. 5. Disposta dal tribunale consulenza tecnico – contabile, la causa è stata decisa con la sentenza definitiva n. 22127 del 16 luglio 2004, con la quale A.F., nel rigetto dell’appello incidentale e nell’accoglimento di quello principale, è stato condannato al pagamento della somma di Euro 45.144.909,00, oltre rivalutazione monetaria dall’I luglio 2003 ed interessi legali sulla somma rivalutata sino al soddisfo, oltre alle spese di tutti i procedimenti cautelari e di merito.
6. Avverso detta sentenza A.F. propone ricorso per cassazione.
Resiste con controricorso la banca intimata.
Entrambe le parti hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è articolato in tre motivi.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2056, 2104, 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 c.p.c. e segg., (art. 360 c.p.c., n. 3); nonchè l’omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5). Ha contestato la pronuncia del giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto che risultava provata in causa la responsabilità del ricorrente per avere creato, o contribuito a creare, l’abnorme esposizione nei confronti del “gruppo Marano”. Un’analisi dei documenti, prodotti dalla B.N.L., consente invece – sostiene il ricorrente – di convalidare la tesi che la direzione centrale della banca aveva piena conoscenza di tale situazione sin dall’inizio e ciò nonostante aveva trascurato di intraprendere qualsiasi iniziativa, ma anzi aveva deliberato in epoca successiva alla formazione del passivo un finanziamento di 3 mld..
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., art. 2043 c.c. e segg., art. 2056 c.c. e segg., artt. 2104 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 99, 112, 115 c.p.c. e segg.; deduce altresì l’omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo. La decisione del giudice d’appello – secondo il ricorrente – merita censura anche in ordine alla ritenuta esistenza del danno ed alla sua quantificazione.
Il consulente tecnico di ufficio, sulla scorta degli estratti conto della banca, ha determinato il credito della B.N.L. in Euro 104.539.638,12, di cui Euro 51.858.316,49 per sorte capitale ed Euro 52.681.321,63 per interessi. Tale risultato cui era pervenuto il tecnico di ufficio non era accettabile in quanto, al momento delta cessazione del rapporto di lavoro, l’esposizione totale del Gruppo era di euro 33.967.000,00, come si evinceva dalle lettere di B.N.L. del 2.8.1994. Pertanto la banca avevano applicato un tasso di interesse di oltre il 23 – 29% su base annua, ossia un tasso sicuramente in violazione della legge sull’usura, da ritenersi nullo ex lege.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e segg., art. 2056 c.c. e segg. e art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 96, 112 c.p.c., art. 115 c.p.c. e segg.; nonchè l’omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo. Deduce il gravissimo danno subito dall’ A.: danno all’immagine nonchè un gravissimo danno biologico per le conseguenze che tutta la vicenda ha avuto sulla sua integrità psicofisica. Al risarcimento di tali danni il ricorrente aveva chiesto la condanna della B.N.L. proponendo appello incidentale.
2. Il primo motivo del ricorso, che attiene all’an debeatur della pretesa risarcitoria esercitata dalla banca, è infondato.
2.1. Va innanzi tutto ribadito, come principio di diritto, che la violazione da parte del lavoratore degli obblighi di fedeltà e diligenza comporta, oltre all’applicabilità di sanzioni disciplinari, anche l’insorgere del diritto al risarcimento del danno (ex plurimis Cass. sez. Lav., 26 giugno 2000, n. 8702); obblighi questi che sono particolarmente accentuati nel caso in cui il dipendente abbia la qualifica di dirigente che lo pone in un diretto e stretto rapporto di collaborazione con il datore di lavoro.
Questa Corte (Cass. sez. Lav. 14 ottobre 2005, n. 19903) ha affermato in proposito che il dirigente di un istituto di credito che si colloca al vertice dell’organizzazione aziendale svolge mansioni tali da improntare la vita dell’azienda, con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro, del quale è un alter ego; da ciò discende anche un’accentuazione dell’obbligo di diligenza che può dirsi violato allorchè il dirigente consenta alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l’ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo. In tale evenienza si determina un danno risarcibile pari alla perdita che l’istituto di credito subisce a causa della situazione di insolvenza di beneficiari del credito assentito dal suo dirigente con violazione dell’obbligo di diligenza.
2.2. In applicazione di questi principi correttamente il tribunale, quale giudice d’appello, ha verificato in concreto la sussistenza della violazione dell’obbligo di diligenza da parte dell’ A., dirigente con mansioni di direttore della filiale di (OMISSIS) e, con tipica valutazione di merito non censurabile in cassazione perchè assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, è pervenuto al convincimento che dalla documentazione prodotta in causa emergeva con sufficiente chiarezza la responsabilità dell’ A. nella creazione di una abnorme esposizione nei confronti del Gruppo Marano (i.e. società Edilizia Melito s.r.l. e Costruzioni Edili M.S.L. s.n.c.; nonchè gli stessi M.S., F. e S., tutti garanti della prima società).
Pacifica essendo la posizione dell’ A. quale organo di vertice della Filiale di (OMISSIS), il tribunale ha accertato l’inadempienza di quest’ultimo al suo dovere di esercitare la dovuta vigilanza sull’andamento dell’attività curata direttamente dai suoi collaboratori per evitare l’anomalo aumento dell’esposizione debitoria del gruppo Marano.
Il tribunale ha dettagliatamente esaminato i documenti di causa che hanno avvalorato tale convincimento di merito, supportandolo sotto il profilo motivazionale.
Ha osservato il tribunale che già mese di (OMISSIS) l’ A. aveva concesso agevolazioni anomale (v. Delib. in data 4 maggio 1993 di un fido alla soc. Edilizia Melito S.r.l. con l’annotazione “anomalie: sconfinamento”). E successivamente la Direzione centrale con lettere del 23 luglio 1993 e del 31 agosto segnalava alla Filiale l’anomalia delle posizioni debitorie delle società Edilizia Melito e Costruzioni Edili M.S.L. s.n.c., che comportavano per la Banca un’esposizione “assolutamente ingiustificata e troppo rischiosa” in considerazione delle dimensioni dell’azienda, del suo giro di affari, della mancanza di garanzie adeguate. Invitava pertanto la Filiale, di cui l’ A. era il direttore, a “regolarizzare le posizioni al più presto”.
Con successiva lettera del 9 settembre 1993 – osserva ancora il tribunale – la Direzione centrale segnalava alla Filiale anche la situazione anomala dei clienti M.S., F. e S., rammentando che, quanto a tali ultimi due, già erano state fatte notare irregolarità e che tutti e tre i M. erano garanti della soc. Edilizia Melito; la Direzione quindi invitava la Filiale ad una sollecita e definitiva regolarizzazione.
La gravità della esposizione debitoria del gruppo Marano e della sua anomalia era in sostanza riconosciuta dalla Filiale stessa che con nota del 31 agosto 1993 assicurava che la situazione delle due società “sarebbe stata seguita con la dovuta attenzione”.
Il tribunale non ha poi pretermesso di tener conto di una circostanza – enfatizzata dalla difesa del ricorrente, ma rientrante pur sempre nella valutazione di merito dei giudici d’appello – consistente nel fatto che la Direzione centrale autorizzava un prefinanziamento di L. 3 miliardi relativamente al mutuo deliberato il 30 settembre 1993 di L. 4,480 miliardi che sarebbe stato erogato dalla BNL Credito Industriale S.p.A. (soggetto diverso dalla Banca resistente), prefinanziamento da rimborsare all’atto stesso della erogazione del mutuo. Anche in relazione a tale operazione la Direzione centrale invitava la Filiale a regolarizzare la situazione precisando che, ad avvenuto rimborso del prefinanziamento, appena fosse stato erogato il mutuo, il rapporto doveva essere ricondotto nell’autonomia della Filiale senza ulteriore lievitazione del rischio connesso all’esposizione debitoria del gruppo Marano. Non vi è quindi alcuna discontinuità nella posizione della Direzione centrale che continua a denunciare alla Filiale l’irregolarità di tale anomala esposizione debitoria.
Il tribunale ha poi verificato che, nonostante il perentorio invito della lettera del 31 agosto 1993 e la successiva assicurazione del 20 settembre 1993, la situazione debitoria del gruppo Marano comunque era continuata a peggiorare. Con una successiva nota del 4 gennaio 1994 la Direzione sottolineava che permanevano gravi irregolarità nonostante le raccomandazioni rivolte dal Servizio crediti con Delib.
6 dicembre 1993 relativa al prefinanziamento, e chiedeva quali provvedimenti sarebbero stati adottati dalla Filiale per ricondurre le posizioni in questione in ambito di regolarità formale e sostanziale. Ed anche in tal caso l’ A. (nota in data 11 gennaio 1994) continuava ad assicurare che si sarebbe seguita con particolare attenzione e con le dovute cautele operative la gestione dei rapporti con l’intero Gruppo Marano.
Di fatto nonostante tali inviti nessun provvedimento veniva adottato e quindi con nota del 19 maggio 1994 la Banca tornava a segnalare ancora la ormai rilevantissima esposizione debitoria del gruppo Marano, denunciando che erano state consentite utilizzazioni di fondi anche in totale assenza di deliberazioni. La Filiale rispondeva con note del 19 maggio 1994 e del 27 maggio 1999 confermando la sostanziale veridicità della situazione denunciata, ma ritenendo ancora meritevoli di credito i M. prospettando operazioni di ulteriore finanziamento – in accordo con altri istituti di credito – che avrebbero costituito non già un salvataggio del gruppo Marano, ma una “operazione ponte” per consentire alle aziende del gruppo di concludere una trattativa di vendita di parte del loro patrimonio immobiliare al Comune di (OMISSIS).
Solo con nota del 20 giugno 1994 l’ A. dava notizia alla Direzione di aver dato disposizioni affinchè il rischio c.d. di corriere non lievitasse ulteriormente, ma riconosceva anche che tale rischio, ammontante a L. 43,067 miliardi, sarebbe gravato essenzialmente sulla BNL, poichè altre banche o avevano esposizioni minori, o avevano adottato un sistema che avrebbe loro anche impedito di essere esposte a rischi di revocatorie fallimentari.
Osservava ancora il tribunale che infine, con nota del 27 giugno 1994, l’ A., nel rispondere alla contestazione disciplinare dello giugno 1994, mostrava di essere stato perfettamente a conoscenza dell’intero complesso di operazioni effettuate a favore del Gruppo Marano, rivendicando anzi la sostanziale bontà dell’operato proprio e dei propri collaboratori e giustificando la violazione delle regole tecniche con la prospettiva che era appunto imminente la vendita di buona parte del patrimonio del Gruppo al Comune di Napoli. In tal modo l’ A. riconosceva implicitamente che la situazione di fatto come prospettata dalla Banca era rispondente al vero e che la stessa era conseguenza diretta e specifica del proprio operato, nonchè dei suoi diretti collaboratori.
Motivatamente, quindi, il tribunale, con valutazione di merito non censurabile in cassazione, ha riconosciuto la diretta responsabilità dell’ A. nella formazione di un credito di notevole rilevanza nei confronti del Gruppo Marano di fatto non recuperato nè comunque recuperabile e da qualificare pertanto propriamente come perdita.
3. Fondato, in parte, è invece il secondo motivo di ricorso che attiene al quantum debeatur.
3.1. Il tribunale ha ripreso – correttamente – le valutazioni del consulente tecnico d’ufficio, il quale, a seguito di compiuto ed attento esame degli atti, ha rilevato che il credito complessivo della Banca nei confronti del gruppo Marano, alla data del 30 giugno 2003, ammontava ad Euro 104.539.638,12, comprensivo degli interessi maturati a favore della Banca fino alla detta data; interessi che decorrevano non già dalla revoca dei fidi – osserva il tribunale – bensì dalle singole precedenti date in cui i rapporti di mutuo erano stati costituiti, cioè fin dai primi mesi del 1993.
Il c.t.u. ha poi valutato in Euro 50.082.366,00, il patrimonio dei gruppo Marano, nonchè in Euro 1.908.308,00, le garanzie ricevute da terzi cui ha aggiunto la somma di Euro 13.144.345,00, quali gravami a favore di terzi (ipoteche a favore di altri creditori), pervenendo così alla somma complessiva di Euro 65.963.309,00. Da tale importo il c.t.u. ha detratto l’ammontare di crediti validamente concessi, valutati anch’essi alla data del giugno 2003 (Euro 20.548.400,00).
Sicchè l’importo costituente la perdita per la banca imputabile all’ A. ammontava – secondo il calcolo del c.t.u. – ad Euro 45.144.909,00 (Euro 65.693.309,00 – Euro 20.548.400,00).
Al pagamento di tale importo il tribunale ha pronunciato condanna del ricorrente in favore della banca.
3.2. Deve però considerarsi che nell’ammontare del risarcimento del danno il c.t.u. ha considerato, nel loro pieno ammontare, oltre alla sorte, anche gli interessi decorrenti dalla data in cui i singoli rapporti di mutuo si erano costituiti (ossia dai primi mesi del 1993) fino al 30 giugno 2003. Si tratta di un periodo di circa dieci anni che ha portato quasi al raddoppio dell’esposizione debitoria del gruppo Marano avendo il c.t.u. accertato una sorte di Euro 51.858.316,49, a fronte di interessi maturati per complessivi Euro 52.681.321,63; periodo durante il quale, per buona parte, l’ A. non poteva più incidere perchè in quiescenza dal 30 giugno 1994.
Il ricorrente ha contestato la debenza di tali interessi deducendo in particolare che essi erano eccedenti la misura massima consentita e quindi erano da qualificarsi come usurati.
Anche se questa censura è sostanzialmente generica e quindi inattendibile, non può farsi a meno di considerare che, seppur i danni risarcibili sono anche quelli futuri e quindi il calcolo degli interessi non può arrestarsi alla data in cui l’ A. ha cessato il rapporto lavorativo con la Banca, deve però tenersi conto del generale principio posto dall’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. In tanto gli interessi sulla sorte capitale potevano essere calcolati nella misura convenuta per tutto il periodo suddetto in quanto il comportamento, apparentemente inerte, della banca – di cui non risulta alcuna iniziativa di tipo cautelare a garanzia del credito – fosse stato ritenuto compatibile con il canone dell’ordinaria diligenza.
In questa parte – attinente alla misura degli interessi maturati de die in diem per tutto il periodo in cui, in massima parte, l’ A. non era più in servizio – la censura del ricorrente è fondata per non aver il tribunale valutato pienamente l’efficienza causale del comportamento inerte della banca protrattosi per tutta la durata di tale periodo in cui è maturato il danno risarcibile.
4. Il terzo motivo, riguardante l’appello incidentale, è assorbito presupponendo l’accoglimento del primo motivo che invece è stato rigettato.
5. Il ricorso va quindi accolto limitatamente al secondo motivo, nei termini sopra indicati; va rigettato il primo ed assorbito il terzo.
L’impugnata sentenza va cassata nei limiti del motivo accolto con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte:
Accoglie parzialmente il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo ed assorbito il terzo; cassa l’impugnata sentenza nei limiti del motivo accolto e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2008.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2009
GIURISPRUDENZA CORRELATA
Vedi anche:
Cass. civ. Sez. lavoro, 14/10/2005, n. 19903