Quer pasticciaccio brutto (dell’art. 18)
Proviamo a semplificare per il lettore comune, verosimilmente e comprensibilmente disorientato dal frastuono di un dibattito spesso fuorviante, i termini della questione sulla riforma della disciplina dei licenziamenti.
Rispetto alla disciplina vigente (art. 18 della legge n. 300 del 1970, e norme collegate) – per la quale i dipendenti delle imprese medio-piccole e grandi hanno diritto in ogni ipotesi di licenziamento illegittimo, oltre al risarcimento del danno, alla ricostituzione per sentenza (reintegrazione) del rapporto di lavoro, mentre i dipendenti delle micro-imprese (di regola, con meno di sedici dipendenti) hanno diritto soltanto al risarcimento del danno attraverso una indennità in misura relativamente modesta (fino a 6 mensilità), essendo la reintegrazione per essi prevista esclusivamente nell’ipotesi di licenziamento per motivo discriminatorio o comunque illecito – le esigenze di riforma generalmente riconosciute (anche in un documento programmatico dell’attuale governo), e sollecitate dall’Unione Europea, possono essere così sintetizzate:
1) rafforzare la c.d. “flessibilità in uscita”, prevedendo per i licenziamenti illegittimi, e specialmente per quelli basati su giustificato motivo c.d. economico od oggettivo, una sanzione soltanto indennitaria, ma certa, ed opportunamente adeguata e graduata – così formalizzando una prassi diffusa (salvi i casi di “braccio di ferro” per questioni di principio), che vede lo stesso lavoratore spesso disposto a rinunciare alla reintegrazione in cambio di una somma adeguata in aggiunta al risarcimento del danno – , e riservando la sanzione di ricostituzione coattiva del rapporto alla sola ipotesi del licenziamento per motivo illecito, in linea con la tendenza prevalente negli ordinamenti degli altri Paesi europei;
2) conferire maggiore certezza alle ragioni giustificative del licenziamento, e maggiore prevedibilità agli esiti delle controversie, attraverso una regolamentazione chiara e tale da ridurre l’area della discrezionalità del giudice specialmente per i licenziamenti disciplinari, secondo la direttiva di politica legislativa già abbozzata dal c.d. “collegato lavoro” (legge n. 183 del 2010, in larga misura confermata dall’attuale d.d.l. governativo) attraverso il tentativo di imbrigliare i giudici del lavoro imponendo loro di “tenere conto” delle ipotesi di licenziamento giustificato previste dai contratti collettivi (tentativo, per la verità, un po’ patetico: e quale mai giudice ha apertamente disatteso un dovere così ovvio?);
3) ridurre, anche per questo aspetto, il gap di protezione fra dipendenti delle imprese medio-piccole e grandi, e dipendenti delle micro-imprese;
4) fare della realizzazione di tali esigenze, e specialmente di quelle indicate nei primi due punti, un polo di attrazione per nuove assunzioni, soprattutto da parte di imprenditori od investitori esteri.
Vediamo come il d.d.l. di riforma del mercato del lavoro, all’esame del Parlamento, risponde a tali esigenze essenziali: al di là di alcuni interventi condivisibili, ma su aspetti marginali e di scarsa rilevanza pratica, quali l’introduzione dell’onere di motivazione contestuale alla lettera di licenziamento e di una disciplina volta a razionalizzare gli effetti della revoca del licenziamento così agevolandola.
1) La sanzione della reintegrazione è di fatto confermata – oltre che ovviamente per i licenziamenti basati su motivo discriminatorio o comunque illecito – anche per i licenziamenti c.d. disciplinari cioè intimati per mancanze del lavoratore. Per questi, infatti, è sì prevista in astratto la possibilità che il giudice scelga una sanzione meramente risarcitoria, attraverso un’indennità fra 12 e 24 mensilità di retribuzione. Ma tale possibilità è vanificata in concreto dalla imposizione della reintegrazione nelle ipotesi in cui il giudice o accerti la “insussistenza dei fatti contestati” (cioè escluda la mancanza addebitata) o giudichi il licenziamento una sanzione sproporzionata rispetto alla ritenuta minore gravità della mancanza pur accertata, ma ritenuta meritevole di una minore “sanzione conservativa” (come è ora reso inequivocabile dal nuovo testo del d.d.l., contestato da Confindustria): il che è come prevedere la reintegrazione per tutte le ipotesi di illegittimità di un licenziamento disciplinare (potremo essere smentiti, ma non riusciamo ad immaginarne altre). Pertanto, al di là dei frastuoni e delle polemiche, sostanzialmente nulla cambia quanto ai licenziamenti per mancanze: salvo un po’ di confusione aggiuntiva (che farà la gioia degli avvocati), e l’introduzione (virtuale) di una indennità di legge la cui misura massima potrà funzionare verosimilmente quale parametro per le incentivazioni alla risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro (un parametro probabilmente appetibile per le grandi imprese, ma – per quanto consta – non certo per le medio-piccole). La sostituzione della reintegrazione con la sanzione indennitaria, nella stessa misura indicata, è invece effettivamente introdotta dal d.d.l. quanto ai licenziamenti intimati per motivo c.d. economico od oggettivo, cioè per sopravvenute necessità dell’impresa. Ma si tratta di una sostituzione soltanto eventuale, che può (e deve) essere esclusa dal giudice quando accerti la “manifesta infondatezza” del motivo addotto dall’impresa: una eventualità incombente ed impalpabile, perché ognuno comprende che la sottile linea di confine fra la insussistenza, e la “manifesta” insussistenza, delle ragioni organizzative o produttive poste a base del licenziamento, o della non riutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni, può essere individuata soltanto scrutando le profondità della mente del giudice. Per di più, la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è arricchita (si fa per dire) dal colpo di genio di re-introdurre per le relative controversie il (fallimentare, e perciò abrogato dalla citata legge n. 183 del 2010) tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi alla Direzione del Lavoro, nell’ambito del quale l’imprenditore deve preventivamente “dichiarare l’intenzione” di licenziare: con la naturale conseguenza – oltre ai ritardi ed appesantimenti burocratici – che il lavoratore preavvertito, se non è proprio uno sprovveduto, si metterà immediatamente in malattia, così impedendo l’efficacia del licenziamento. Il dichiarato rafforzamento della “flessibilità in uscita” è, dunque, o puramente virtuale (licenziamenti disciplinari), o eventuale, incerto, e comunque più che compensato da ritardi ed intralci burocratici (licenziamenti per motivo oggettivo).
2) L’incertezza, e soprattutto l’imprevedibilità dell’esito delle cause sui licenziamenti, non soltanto non sono ridotte, ma se mai sono aggravate dalla attribuzione ai giudici di un inedito (e, ne siamo sicuri, non gradito) potere-dovere di scelta discrezionale, priva di qualunque parametro oggettivo, fra “infondatezza” e “manifesta infondatezza” della giustificazione di un licenziamento. L’incertezza è poi accentuata dall’altra geniale idea di introdurre per tutti i licenziamenti – in vista della “velocizzazione” delle relative controversie – una procedura di accertamento sommario sul modello dell’azione di repressione della condotta antisindacale (o del procedimento d’urgenza, ma senza onere di provare il requisito dell’urgenza): scelta sostanzialmente inutile (perché le cause su licenziamenti hanno già di regola una corsia preferenziale, ora del resto imposta dal d.d.l., e perché il temuto effetto dei ritardi del processo sull’ammontare del risarcimento danni per licenziamento illegittimo è già esorcizzato dall’introdotto limite massimo di dodici mensilità), del tutto irrazionale (perché le cause su licenziamenti, specialmente disciplinari, possono richiedere accertamenti complessi, del tutto incompatibili con istruttorie sommarie), lesiva di esigenze elementari di contraddittorio e di difesa per il datore di lavoro (non essendo previsto neppure un termine minimo fra la notifica del ricorso e l’udienza di comparizione), irrispettosa delle esigenze di studio della causa da parte del giudice con cognizione delle posizioni di entrambe le parti (non essendo previsto neppure un termine per il deposito, prima dell’udienza, di una memoria difensiva da parte del datore di lavoro), potenzialmente foriera per entrambe le parti di gravi ingiustizie (non facilmente rimediabili nella successiva fase di opposizione, la quale è rimessa allo stesso Tribunale che ha emesso il provvedimento nella fase sommaria e che, come l’esperienza insegna, di regola tenderà a confermarlo).
3) Il gap fra dipendenti protetti o iper-protetti, e dipendenti sotto-protetti, è rimasto immutato: salvo che per quel Ministro la quale ha aperto una conferenza stampa affermando, e poi ribadendo, che la riforma avrebbe esteso anche ai dipendenti delle piccole imprese la reintegrazione per i licenziamenti basati su motivo discriminatorio o illecito, scambiando così per una entusiasmante novità del d.d.l. governativo una regola espressa che esiste sin dal 1990 (anche per le domestiche), e che è nota a qualunque studente che si presenti all’esame di diritto del lavoro con una preparazione media. E per fortuna che sono tecnici.
4) Infine, stendiamo un velo sul potere di attrazione di questo testo prolisso e pasticciato (e questa non è una novità, nella legislazione del lavoro degli ultimi anni) quale stimolo per nuove assunzioni. Anzitutto, per essere attratti da un qualcosa, quel qualcosa bisogna conoscerlo: e questo è un testo già difficile da spiegare ad un imprenditore (con uno straniero, non ci proveremmo nemmeno). Se poi si arriva a conoscerlo, lo si evita.
Insomma, la proposta riforma dell’art. 18, raffrontata alle esigenze che essa avrebbe dovuto realizzare, può definirsi un piccolo capolavoro: all’incontrario.
Ma, non volendo apparire solo critici, abbiamo un suggerimento costruttivo, questo: se la riforma deve essere fatta così, teniamoci stretto il buon art. 18, stagionato da oltre quarant’anni. Anche per questo aspetto, sovviene il dialetto romanesco. Non quello del romanzo di Carlo Emilio Gadda che ispira il titolo di questo articolo, ma quello di un anonimo trasteverino, del quale si narra che – avendo sperimentato, dopo la caduta del fascismo, qualche mese della neonata democrazia repubblicana – tracciò su di un muro, a lettere cubitali, la scritta: “aridatece er puzzone!”.
Sergio Magrini
Professore di diritto del lavoro nelle Università di Roma “Tor Vergata” e Luiss “Guido Carli”