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Nel licenziamento individuale per G.M.O. il datore non deve provare l’andamento economico negativo dell’azienda (di F. Graziotto)

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Nel licenziamento individuale per G.M.O. il datore non deve provare l’andamento economico negativo dell’azienda (di F. Graziotto)

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29238 del 2017, ha stabilito la legittimità del  licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nei casi in cui la riorganizzazione delle attività – dettata dall’esigenza di incrementare i profitti aziendali – determini la soppressione di una posizione lavorativa, anche quando il presupposto del licenziamento non sia uno stato di crisi aziendale o una situazione di effettiva difficoltà economica aziendale.

Secondo la Cassazione l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, poiché è sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa.

Il caso.

Un società partecipata da un gruppo internazionale riorganizzava le proprie attività e licenziava un lavoratore per soppressione del posto di lavoro a seguito della redistribuzione ad altri lavoratori dei compiti da lui svolti.

La Corte di Appello rilevava che la soppressione del posto di lavoro era stata effettiva e derivava dalla riorganizzazione aziendale, e confermava il licenziamento.

Il lavoratore proponericorso per Cassazione, che lo rigetta.

La decisione.

La Suprema Corte dapprima esamina i fatti: «La Corte di appello rilevava che la soppressione del posto era stata effettiva e non pretestuosa e derivava da una riorganizzazione aziendale confermata dalle risultanze istruttorie, che aveva portato a modificare la gestione delle escalations facendo confluire a livello internazionale quelle interne e quelle esterne ( che erano affidate al sig. F.) nella nuova funzione chiamata Incident Management, con notevoli risparmi di costi ed anche vantaggi organizzativi».

Richiama poi le risultanze istruttorie circa la possibilità di assegnare il lavoratore ad altri compiti: «era stato anche confermato l’impossibilità di un repechage in mansioni compatibili ed altresì che al lavoratore era stata offerta un’occasione lavorativa coerente con la professionalità acquisita . Secondo la Corte era onere del lavoratore dedurre le possibilità di repechage e cioè l’esistenza di posizioni equivalenti nelle quali poteva essere adibito ma tutte quelle indicate non erano affidabili in concreto al F. ( che non era un tecnico né aveva competenza commerciale) in quanto presupponevano esperienza e competenze non possedute da questi», e che «tutti i testi avevano confermato che dopo il recesso non erano state effettuate assunzioni nel settore ove era stato impiegato il ricorrente; le assunzioni indicate dal lavoratore si riferivano a divisioni che svolgevano attività ben diversa da quella di cui si occupava l’appellante e con diversi profili professionali ( pag. 11 della sentenza impugnata)».

Riassunti i fatti così come accertati dalle Corti di merito, affronta i nove motivi di ricorso del lavoratore, la maggior parte dei quali infondati perché tendenti, in realtà, a un riesame nel merito dei fatti e non al sindacato di legittimità demandato alla Corte di Cassazione.

Nell’esaminare il motivo col quale il lavoratore lamentava che le mansioni da lui svolte non erano state soppresse, ma solo redistribuite tra altri lavoratori, la Suprema Corte richiama l’indirizzo affermato in una precedente decisione: «va ricordato che questa Corte ha affermato, secondo un indirizzo che si condivide e cui si intende dare continuità, che” il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3 della I. n. 604 del 1966, è ravvisabile anche soltanto in una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di una più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate, con il risultato finale di far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, sicché non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato siano stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta” ( Cass. n. 19185/2016)».

Per il Collegio «in ogni caso l’operazione riorganizzativa con soppressione del posto e redistribuzione delle mansioni tra altri dipendenti è ritenuta legittima da parte di questa Corte, pur nel rispetto di limiti che nel caso di specie non sono stati valicati (non è – cioè – emerso che la redistribuzione non sia l’effetto della ristrutturazione ma ne sia in sostanza la causa)».

Affrontando un ulteriore motivo di ricorso, col quale si allega la falsa applicazione delle norme di diritto di cui all’art. 2119 cod. civ. e per violazione dell’obbligo di repechage, la Cassazione rileva che «.Nel motivo sembrerebbe porsi anche la diversa ed autonoma questione di diritto se presupposto di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba essere uno stato di crisi aziendale o una situazione di effettiva difficoltà economica aziendale posto che il recesso deve essere considerato come una extrema ratio, che la giurisprudenza più recente di legittimità esclude, componendo una incertezza durata alcuni anni. Questa Corte con sentenza n. 25201/2016, che si condivide e cui si intende dare continuità, ha infatti affermato il principio secondo il quale “ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta”.»

Il ricorso viene infine rigettato.

Osservazioni.

La Suprema Corte ha confermato l’orientamento che ritiene legittimo il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nei casi in cui la riorganizzazione delle attività – dettata dall’esigenza di incrementare i profitti aziendali – determini la soppressione di una posizione lavorativa. Non è cioè necessario che il presupposto di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia uno stato di crisi aziendale o una situazione di effettiva difficoltà economica aziendale.

E lo fa richiamando una precedente decisione che aveva affermato il principio che «ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa».

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