Trasferimento d’azienda: in caso di nullità della cessione il cedente è obbligato a corrispondere la retribuzione al lavoratore ceduto
Con Sentenza n. 26759 del 21 ottobre del 2019 la Suprema Corte, Sez. Lavoro, ha ritenuto che in caso di cessione di ramo d’azienda, quando venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni corrisposte dal cessionario non producono un effetto estintivo dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
IL FATTO – Diversi lavoratori, a seguito della declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda al quale erano adibiti, mettevano a disposizione del datore cedente la propria prestazione lavorativa. A fronte del rifiuto dello stesso alla ricostituzione del rapporto lavorativo, notificavano a quest’ultimo un decreto ingiuntivo per richiedere il pagamento delle retribuzioni maturate dal momento dell’emanazione della sentenza. Nel giudizio di opposizione, la Corte di Appello revocava l’ingiunzione, sul presupposto che vi non fosse stata detratta la retribuzione ottenuta, nello stesso periodo, alle dipendenze del cessionario. I lavoratori ricorrevano per Cassazione.
LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE – La Suprema Corte, dopo aver affermato in via preliminare che nel trasferimento d’azienda o del ramo d’azienda la continuità si configura soltanto se il rapporto di lavoro resta unico, ha ritenuto che:
- tale condizione viene meno nel momento in cui intervenga una declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda;
- in tale circostanza, infatti, il lavoratore rende materialmente la prestazione in favore del cessionario, ma sul piano giuridico esiste soltanto un rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente.
Su tali premesse, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto che nell’ipotesi in cui l’originario datore rifiuti di adempiere all’ordine giudiziale di ricostituzione del rapporto illegittimamente trasferito, la messa a disposizione delle energie lavorative equivale all’utilizzazione effettiva. Ne consegue che, da quel momento, l’attività svolta dal prestatore in favore del cessionario equivale a quella resa per qualsiasi soggetto terzo e, pertanto, il relativo compenso non va detratto dalla retribuzione che è obbligato a corrispondergli il cedente.
Sulla scorta di tanto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dei lavoratori, cassando con rinvio l’impugnata pronuncia di merito.
Testo completo della decisione: Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sentenza n. 26759 del 2019